Ricordo la giovinezza di quei giorni… ero stata assunta come hostess per uno stand di una rivista di musica, dovevamo solo stare in piedi davanti a un tavolo e dare informazioni sul sito internet e sulla rivista in generale. Io avevo 17 anni e per due giorni di fiera presi 100 euro, non essendo abituata a paghette e regali in denaro per me quei soldi, il mio primo stipendio, mi sembravano una buona cifra. In fondo non era una gran fatica presenziare al M.E.I. di Faenza. Il meeting delle etichette indipendenti era un luogo strapieno di musicisti concerti, conferenze sulla discografia e vinili.
Avevo seguito un corso con il mio gruppo per giovani band, molti del corso avrebbero suonato in quell’occasione, noi no: non avevamo il batterista così io e l’altra ragazza del gruppo che venne con me al meeting, non pensammo di portare con noi gli strumenti per la domenica dei concerti. Mentre ero intenta a osservare la gente che entrava e usciva in questo grande capannone adibito nelle diverse aree tematiche, uno degli insegnanti del corso mi vide e mi chiese che ci facevo lì in quella veste, poi aggiunse:”be’ voi non suonate?!” io accampai scuse e lui in men che non si dica trovò una chitarra e un basso. Avremmo suonato una versione più soft, “acustica” delle canzoni della compilation fatta alla fine del corso. Non avevo mai suonato davanti a un pubblico se si escludeva i concerti con gli altri membri del corso e la sessione di registrazione, per me era troppo poco. Iniziai a sentirmi nervosa, troppo nervosa, qualcuno mi mise al collo una chitarra enorme, con la cassa anni ’50, provai a suonarla ma non era la mia, la sentivo distante e col suo suono dolciastro non avrebbe mai saputo rendere giustizia alla durezza dell’ibanez col quale avevo composto “Marcella”. Quello che per me rendeva la canzone d’impatto era il contrasto tra l’arpeggio regolare e circolare quasi nevrotico e la dolcezza del testo. La mia chitarra con suoni più da heavy metal che rock mi sembrava inadatta a me, il suono era troppo duro e graffiante, ma era stata l’unica che potevo permettermi, la chitarra del tizio invece era inconciliabile, troppo portata per le ballate e la nostra canzone non lo era di certo. Anche se mi sembrava di essere nel posto dove dovevo stare, dove potevo stare, in realtà per la mia inesperienza mi sentivo fuori luogo, in mesi e mesi non eravamo riusciti a raccattare che un misero batterista che suonava con band rock demenziali, grazie all’abilità del tecnico del suono la batteria nella canzone risultava brillante ma lui no, era eccentrico e mediocre. Non eravamo riusciti neppure a fare qualche prova decente e “Marcella” era saltata fuori per caso; nella mediocrità delle nostre capacità solo grazie alla pressione del corso riuscimmo a creare qualcosa. Il resto erano canzonette da poco, o almeno per me erano questo, troppo da cantautrice uterina ed io a quell’epoca ascoltavo pochissima musica femminile: tutto ciò era impensabile. Purtroppo avevo una precisa idea di cosa dovessi suonare, di come dovessero essere le canzoni ma le mie mani non erano abbastanza abili per arrivare a quel livello, per raggiungere quel suono. Inoltre non eravamo riusciti a farci conoscere nel microcosmo di gruppi del paesino che frequentavamo, tutti chiusi tra di loro non facevano entrare nessuno nelle loro cerchie. E noi di certo non facevamo nulla per essere più simpatici e disponibili. Troppo chiusi loro. Troppo chiusi noi. Tutte queste sensazioni di insicurezza, insieme all’altissima instabilità psichica familiare che stavo vivendo e che mi avrebbe portato a smettere di suonare più avanti, mi ronzavano nella testa. Così andai in bagno, che era sostanzialmente un container con tanti piccoli scomparti come quelli che sono presenti alle feste di paese o fuori di qualche discoteca all’aperto. Entrai in uno di questi comparti muniti di tazza, chiusi la porta di lamiera e mi sedetti. Pensai a cosa fosse meglio fare, alla paura e all’ansia che saliva lenta dalla bocca dello stomaco e che non si stava palesando come eccitazione ma vero e proprio vomito, pensai che non ce l’avrei fatta, ero troppo sotto pressione e mi misi a piangere, così decisi che non avrei mai permesso a me stessa di avere di quel giorno un ricordo negativo in cui sbagliavo le note e perdevo la voce. Avevo preso la mia decisione in un cesso sporco e maleodorante e da quel momento in poi tutto assunse un sapore metallico. La nausea aveva sostituito l’ansia. Mi dissi che non mi sarei mai più ritrovata in una situazione del genere, che avrei avuto altre possibilità in futuro, che non sarebbe stata l’ultima volta, fui contenta che l’evento finisse quella sera, così potevo tornare a casa con la mia delusione e il mio rimpianto bello e fatto. Potevo raccontarmi qualche storiella per dirmi che andava bene così, che era la cosa giusta, che in fondo non era nulla di che, ma nel profondo sapevo che sarebbe diventata una delle prime cose da inserire nel cassetto della rimozione. Dimostrai quel giorno che mi portavo addosso troppo, troppe ansie, troppe paure, troppo me stessa sul palco. Non ero ancora matura. Passarono anni prima che quel ricordo fosse sostituito da uno più piacevole legato a Faenza: un pubblico di ascoltatori ed io in piedi a leggere nel silenzio pezzi del mio racconto. La paura era passata.
Mi hai fatto tornare in mente questa canzone:
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sono anni che non ascoltavo questa canzone… grazie per avermela rimessa nelle orecchie, il testo è davvero molto bello.
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Mi fa molto piacere che anche tu abbia apprezzato questa stupenda canzone. Nel mio blog puoi trovarne tante altre: infatti quando replico ai miei commentatori spesso chiudo la risposta con il video di un brano relativo al concetto che ho appena espresso. Nei commenti a questo post, ad esempio, ne ho caricati una decina: https://wwayne.wordpress.com/2015/06/28/una-spalla-su-cui-ridere/.
Colgo l’occasione per consigliarti questo splendido film, che si apre proprio con A horse with no name in sottofondo: https://wwayne.wordpress.com/2014/01/08/il-fine-giustifica-i-mezzi/. Grazie a te per la risposta! 🙂
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trovo qualcosa di positivo in quella rinuncia, anche se bruciante: la consapevolezza di sè, di non essere ancora pronta e di aspettare e meritare un’occasione migliore.
ml
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ciao,
ansia e paura rischiano di paralizzarci, la consapevolezza e la voglia del miglioramento ci fanno andare avanti.
Le occasioni possono arrivare, ma è anche vero che un minimo ce le dobbiamo cercare.
Marirò
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Devo dire che a 17 anni non si può essere maturi ma semplicemente incoscienti. Tu hai trovato la forza di non esibirti, perché la parte razionale ha prevalso su quel pizzico di incoscienza che si ha a quell’età.
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Stare male è la parte facile.
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totalmente d’accordo
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