A working class hero is something to be

La prima volta che sentii l’espressione “il treno degli operai” ero ancora una bambina. La mia vita allora era solo una giungla di perché. Ripensando a quel periodo ci sono immagini chiare che mi balzano alla mente. Rivedo mia sorella che delusa mi rivela troppo presto la non esistenza di Babbo Natale, rivedo chiaramente mia madre alla stazione di Bologna sul treno per la Sicilia, e pingiamo tutti e le stazioni mi sembrano tanto grandi e tanto tristi. Ripenso alla mia maestra che mi chiede beffarda della mia famiglia sperando di saperne di più, la sento parlarne con altre colleghe convinta che una bambina non possa comprende la malizia. Mi vedo intonare canzoni inventate in stile Sanremo improvvisate con sincera convinzione sul pianerottolo delle scale. Penso a tutte le storie d’amore e vendetta vissute dalle  mie barbie e ai 4 bambolotti tutti miei figli da accudire. Poi ci sono i compiti e i cartoni animati alle 16 su italia uno. Sento l’inizio di quella costante sensazione di disagio col mio corpo che anche ora a tratti non mi abbandona. Ci sono i viaggi in treno con mio padre ferroviere, la casa da pulire per far piacere a mia madre quando sarebbe tornata e poi tanti futuri possibili.

La mia vita era tutto sommato qualcosa di semplice. Capii che esistevano domande falsamente interessate più o meno nello stesso periodo in cui capii che esistevano movimenti falsamente interessati.

“Il treno degli operai” lo immaginavo stretto, affollato, esausto, con gli sguardi verso il soffitto per resiparare o verso il panorama per resistere. Nel mio immaginario di bambina che accumulava informazioni dai giornali, da mio padre e dalle immagini in tv ero sicura che queste persone vivessero male ogni giorno della loro vita arrabbiata e attaccata al lavoro. Ed il lavoro dai racconti di mia madre era qualcosa di estenuante con evidenti connotazioni negative, dove bisognava resistere a colleghi carnefici, un costante banco di prova, mai qualcosa che seppur faticoso potesse dare ogni tanto appagamento o inorgoglire. Mia madre soffriva un complesso di inferiorità costante. Lei ha sempre vissuto male per questo, e purtroppo l’ha trasmesso a noi figli.

La mia mente di bambina si fermava alle apparenze ma la giornata era questa: alzarsi prestissimo col buio, farsi il viaggio in treno con la paura costante di ritardi e disagi vari, la paura di perdere i soldi, e poi 8 ore in fabbrica che per me non poteva che assomigliare a  un’officina dell’800 piuttosto che a una moderna realtà, e poi di nuovo il treno nel buio. Queste persone vedevano pochissimo sole e passavano gran parte della loro vita dentro la fabbrica, che non era azienda e di certo neppure company. Insomma qualcosa di molto simile a “tempi moderni” di Chaplin.

Tutti i giorni prendo l’autobus per andare a lavoro, qualcuno lo chiama corriera o chi è più fortunato lo chiama “lo sposta poveri”.  I passeggeri sono soprattutto donne e di mezza età, non so bene se tutti qui non possono permettersi l’auto o solo per comodità, io lo faccio per entrambi i motivi in effetti e mi godo quel tragitto che ogni giorno mi regala il panorama della città nella penombra che mi guarda sonnacchiosa.

La corriera puzza di umanità, di bagnato e scoregge, di tessuto scadente, sporco, di anime mal pagate, di pensieri sospesi, di sonni interrotti, di certezze, speranze e dubbi. Puzza di contratti interinali, collaborazioni e di spese continue, di visite da rimandare, di tosse, raffreddore e febbre. Puzza di pianti, di stanchezze tutte diverse e accomunate da un solo beffardo destino. Puzza di cellulari accesi, di riviste, di libri lasciati a metà. Puzza di sudore, sciarpe, giacche e cappelli, puzza di ombrelli. Puzza di bocche chiuse, serrate, di aliti di caffè, di altre lingue. Attraversa la città verso la periferia e poi più in là verso i paesini limitrofi protuberanze produttive e solitarie, immerse nella pianura.

Al bivio del concessionario auto, la corriera svolta a sinistra ed entra nella vera e propria area industriale, con solo i cartelli a dividere i capannoni tutti uguali.  Parte l’hop on hop off, ognuno la sua fermata. La maggior parte dei passeggeri scende alla stessa fermata in via del lavoro, a destra e a sinistra i capannoni delle aziende. Più avanti un secondo bivio ma prima una cancellata con le bandiere penzolanti di qualche sindacato poco convinto, un cartello con uno slogan risoluto e amaro lasciato a monito per quelli dentro, oltre il grande cancello; ma sembra tutto fermo e poco convincente, il silenzio lo inghiotte e non trascina più le folle, e rimane solo da contorno del paesaggio stesso. La corriera continua. Sale una mamma che accompagna il bambino a scuola, e poi qualche casa, un piccolo centro abitato, una chiesa e l’ultimo incrocio. La corriera si immerge tra i campi, ancora qualche chilometro e poi la mia fermata.

L’odore di stalla, umidità e smog mi impregna le narici, certi giorni non riesco a respirare.  Non passano tante auto sulla strada, ma è questa umidità che blocca a terra le polveri e il resto. A destra un campo di spighe secche mi accompagna per qualche metro. Certi giorni in lontananza si vede il sole rosso appena acceso, e in quei giorni indugio sul percorso per l’ufficio. Cerco per qualche istante di non pensare a quel politico che saliva con le scarpe di grandi firme sul treno degli operai e poi scendeva prima di arrivare “alla fabbrica”, cerco di non pensare al dottorato internazionale che ho trovato “qui vicino” e alle poche possibilità anche escludendo baroni e mal costumi italiani. Cerco di non pensare che sono l’unica donna che scende qui, al freddo penetrante nella strada verso l’ufficio, al fatto che quando arriverò dovrò aspettare fuori che mi aprano visto che il mio ufficio è in una palazzina ed io non ho la chiave. Cerco di non pensare che sono grande per fare salti nel vuoto, cerco di non pensare ai 24 crediti per il fit, al mio capo che ogni giorno mi dice che vuole provare ad andare a lavorare a scuola, ai 500 euro per quei crediti, al fatto che un ingegnere non può insegnare matematica ma uno laureato in agraria sì, ma entro un certo anno mi raccomando che bisogna sempre fare distinzioni. Cerco di non pensare al compito che mi hanno assegnato ( “ti odieranno tutti”, grazie penso), cerco di non pensare al fatto che nel mio ufficio non hanno neppure il sacchetto dell’indifferenziata, cerco di non pensare all’estero e al buio di possibilità che potrebbe dare ma che per ora è un discorso impossibile anche solo da pronunciare con mio marito, cerco di non pensare a le cose che dovrei e vorrei scrivere.

Cerco di non pensare, sospesa tra la fermata e l’ufficio ad osservare l’arrivo del giorno, come in attesa.

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Pubblicato da Deserthouse

Innamorata della musica della chitarra e della scrittura, ho un blog che aggiorno spesso, amo leggere le cose scritte da altri, qualsiasi cosa possa darmi uno spunto di riflessione, o farmi indugiare in una sensazione. Come tutti sto cercando il mio posto nel mondo sperando che ci sia un climax ascendente nel mio finale.

22 pensieri riguardo “A working class hero is something to be

    1. Purtroppo non abbiamo la cultura del mezzo pubblico per spostarci un po’ perché la rete è mal gestita e sviluppata male e un po’ perché per alcuni l’auto rimane ancora uno status sociale

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      1. Hai ragione, per esempio nel paese dove vivo io c’è il servizio di autobus per andare nella piccola città dove si può prendere il treno per andare altrove, ma chi vive nelle strade collinari come me deve per forza usare l’auto per arriva aprendere il bus. A quel punto mi conviene di più andare in auto fino in città. Per andare a fare la spesa poi è indispensabili l’auto.

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  1. Solitamente gli scritti lunghi, mi stancano e non li termino.
    I tuoi, invece, stimolano la lettura e la curiosità .
    Ottima scrittura!
    Peccato che la cruda realtà, sia la protagonista, dei tuoi giorni e di molte altre persone…

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  2. Io mi chiedo: “come può una persona così sensibile, così bella dentro e con un intelletto che le consente di esprimersi a questo modo essere così incasinata ??? ” Che la società umana sia organizzata di merda non lo sto scoprendo io di certo, ma resto convinto che alcuni intellettuali, pensatori o filosofi del passato abbiano, con le loro opere, fatto prendere alla cultura una strada assolutamente sbagliata.
    P.S. Mi piacerebbe, almeno una volta, salire su quell’autobus.

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