Stasera e prima parte “Il bar”

Stasera devo fare delle letture erotiche con una mia amica scrittrice, non scrivo spesso racconti erotici, anzi ne ho scritto solo uno così per cimentarmi con generi diversi e sostanzialmente per verificare il mio livello di pudore e curiosità. Lei ha scritto un un libro molto intenso con  protagonista una donna che scopre un altro tipo di piacere attraverso il dolore. Non ho mai provato le tecniche BDSM e almeno finora non ho sentito l’esigenza di addentrarmi in quel mondo ma la psicologia che sta dietro il desiderio di dolore mi affascina molto. Se volte leggerlo si chiama “La colpa sulla pelle” di Leonarda Morsi e lo trovate su amazon, lei scrive molto bene, non è per nulla volgare o pesante nelle descrizioni a parere mio. Stasera comunque leggerò solo la prima parte dell’unico racconto erotico che abbia mai scritto ma che ha vinto un premio l’anno scorso in un concorso a Firenze, e due parti del libro intitolato “La mandorla” di Nedjma. Non le parti legate a descrizioni di atti sessuali o pratiche erotiche, solo qualche riga più evocativa e poetica per lasciare in sospeso e incuriosire più che altro. Posto qui la prima parte del racconto erotico, le righe che penso di leggere stasera.

“Il bar”

Non voleva deludere se stessa stavolta. Aveva sempre concepito il sesso come qualcosa di assolutamente musicale, il respiro lento e poi sempre più intenso, i piccoli rantoli, i gemiti inaspettati come un colpo di batteria improvviso, sì il sesso doveva essere assolutamente musicale, così nell’ascoltare “personal jesus” non poteva fare a meno di sorridere e pensare a quel ritmo costante del basso e desiderare che un uomo la prendesse così, il sorriso aumentava fino a raggiungere una vera e propria risata, troppo costante, troppo perfetto. ma sapeva esattamente quale canzone avrebbe scelto per una notte di orgasmi: l’intro di you shook me dei led zeppelin, poteva immaginare la calda saliva dei baci lenti e leggeri e una lingua che leccava il suo corpo seguendo un’ipotetica linea tracciata dalle dita che si muovevano sul manico della chitarra, una linea che avrebbe accarezzato il suo corpo dal lombo dell’orecchio sinistro fino all’interno delle ginocchia.!

Lo aveva conosciuto per caso, dopo un sabato pomeriggio di passeggio tra negozi. Ennesimo pomeriggio da passare da sola, così aveva pensato di compensare il senso di solitudine e noia con le folle che animavano le vie del centro. Indossava un vestito a fiori, con le maniche corte e una scollatura a v sul petto, le gambe scoperte, dei semplici sandali rossi. non indossava il reggiseno sapeva che il suo seno proporzionato e poco generoso non avrebbe scatenato alcun pensiero peccaminoso, e sotto quel vestito si sentiva leggera, libera. Solo i suoi grandi capezzoli avrebbero potuto irrigidirsi allo strofinarsi con la stoffa, ma non le importava. Era caldo, le persone intorno emanavano calore, l’asfalto emanava calore, tutta quell’afa di luglio portava a desiderare un posto fresco dove rinfrescare un attimo la mente. Entrava in tutti i negozi presenti sulla via, uno dopo l’altro, sapeva che in alcuni non avrebbe preso nulla, ma voleva dare a se stessa l’idea di essere interessata a tutto, così quel pomeriggio visitò anche una mostra su Marilyn e altre icone del cinema del passato, tutte lì che la fissavano con i loro sorrisi di carta e le loro tristezze che non potevano far parte dello scatto. Pensava ai loro amanti, pensava che anche loro belle meravigliose, si erano trovate sole e rifiutate da qualcuno, o usate solo per dare piacere. All’uscita dalla mostra vide un piccolo bar, aveva sete, la gola secca, la pelle che iniziava a sudare, sentiva le piccole gocce di sudore che le attraversavano il collo e si fermavano lì al centro dei seni. Prima di entrare nel bar diresse lo sguardo più lontano su una piccola borsa, di un negozio vintage poco distante dalla piazzetta dove si trovava, una volta arrivata alla vetrina fu colpita dall’allestimento e da un tubino anni ’50 esposto. Da vera diva, pensò tra sè. Entrata nel negozio sentì subito che lì l’aria condizionata l’avevano dimenticata, ma voleva lo stesso provare il vestito tanto desiderato. Si trovò in un camerino con una sola tenda gialla e spessa a nascondere le sue nudità dagli occhi di una ragazza troppo minuta, che si atteggiava a esperta di moda. Tirò fuori un fazzoletto dalla borsa e iniziò a passarselo sul collo vicino all’attaccatura dei capelli, poi fece scendere le maniche del vestito e passo il fazzoletto sul petto e infine nell’incavo tra seni. Fissava la sua immagine nello specchio di fronte, una leggera ombra disegnava una linea diversa del suo corpo, si fissò per qualche istante dopo essersi sfilata il vestito a fiori. Si guardò così nuda con indosso solo delle mutandine bianche, e sotto poteva intravedersi il riccio arruffato del suo pelo pubico. Da quanto non faceva del sesso con un uomo? da quanto non lasciava anche le mutandine a terra e lasciava che gli occhi di un uomo la guardassero e la desiderassero, da quanto non sentiva la mano ferma, leggera e curiosa di un uomo mentre le stringeva il seno? mesi. Mesi che aveva impedito al suo corpo di godere perché la sua mente si era offuscata nel ricordo di un amore troppo sbagliato. L’amore? pensava all’amore e al sesso. Se per il sesso i led zeppelin erano perfetti, per l’amore non poteva non pensare alla voce di Amy Winehouse, triste graffiante e sensuale, perché l’amore per lei era qualcosa di dolce e delicato, in cui la carnalità dei corpi nudi, la brutalità dei gesti veniva edulcorata dai sentimenti. Così mentre infilava il tubino le vennero in mente le parole di Love is a losing game, ma il tubino le stava proprio bene e smise di rimuginare su vecchi pensieri; le esaltava le forme senza renderla volgare, i fianchi ben contenuti e il seno sembrava addirittura essere aumentato, non poteva non prendere quel vestito! Una volta uscita dal negozio si diresse finalmente al bar, sentiva che il caldo era aumentato, in quel piccolo camerino si era accaldata troppo, così improvvisamente quasi vicino al bar iniziò a sentirsi debole, lo sguardo non era più lucido, la fronte le sudava freddo e avvertiva un leggero formicolio alle mani, lo sapeva, stava avendo un calo di pressione, ma prima di accasciarsi a terra, raggiunse una delle sedie poste davanti al locale. Iniziò a respirare lentamente, si sentiva ancora debole ma il solo essersi seduta già stava facendo effetto. Pochi istanti dopo le si parò di fronte una figura alta, per poco ne fu grata di quei brevi attimi di ombra, il tizio di fronte a lei le chiese cosa desiderasse, e lei con poca voce gli disse che voleva solo dell’acqua, lui si affrettò ad aggiungere che era molto caldo fuori e che sarebbe dovuta entrare. Lei si stupì delle parole che seguirono. Potrebbe aiutarmi ad entrare? non mi sento molto bene.

Non ammetteva mai a se stessa di avere bisogno di qualcuno, detestava la sola idea, ogni suo gesto e parola dovevano dichiarare la sua indipendenza, soprattutto dagli uomini, soprattutto da quando era rimasta sola. Lei fece per alzarsi e lui vedendola leggermente barcollare le si accostò accanto, nel sorreggerla le mise una mano sotto il braccio, il suo intento era di tenerla sollevata da sotto le ascelle ma la mano gli finì poco più in là, con i polpastrelli poteva sentire la consistenza morbida del seno che sostituiva il duro delle costole…

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Immobile

il ventre vuoto

le spalle curve

neppure il mangiare frenetico ti riempie davvero

dovresti gioire

per i tempi passati insieme

per i tempi futuri

tu lacrimi sangue

lei lacrima vita

la nuova linfa

lascia in te tanto sconforto

un altro piccolo dito che indica

la tua immobilità

hai camminato per giorni

hai ripulito le stanze

non è ancora abbastanza

 

 

A mia madre…

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Oggi ti ho fatto gli auguri solo per dovere, perché so che ti avrebbe fatto piacere ma ricordo perfettamente tutti i pianti e le crisi di nervi che mi hai fatto passare, ricordo quando affetta dal male di vivere ti chiudevi le orecchie con le mani perché non volevi sentire le mie paure perché tu avevi le tue e il tuo dolore sovrastava tutto quanto, ricordo che mi sono morsa la lingua quando è morto il nonno e ho imparato a piangere in silenzio dentro, altrimenti tu avresti iniziato a inveire con quel tuo modo di fare che tutto copre, sei nata vittima della tua triste storia con una madre che hai sempre dovuto proteggere e di cui ti sei vergognata, la chiamavano “pazza” e tu a cercare di emergere, e tutto quel rancore l’hai riversato sul tuo matrimonio ed i tuoi figli, non ci hai mai lasciato i nostri spazi, tu non dai consigli perché benchè detesti decidere ti è toccato farlo e ogni volta l’hai fatto pesare, tu sei quella brava, lo sappiamo, tutta la tua insicurezza è diventata la mia, ma al tuo contrario io non ho confidenti coatti. Ricordo tutte le urla, sapevi solo urlare e noi eravamo pure buoni bambini ma tu urlavi sempre e ogni parola buona arrivava con una rabbia profonda, ancestrale, sei stata cresciuta così senza che nessuno ti accarezzasse e ti spronasse, e hai fatto lo stesso con me, anzi, vivi nell’insicurezza del confronto con gli altri e in questa battaglia noi ne siamo sempre usciti sconfitti, loro partivano già con la tua stima, io non so se riuscirò mai ad avere la tua, eppure ci ho sempre provato a renderti fiera di me: i buoni voti a scuola, le borse di studio vinte, nessuna cattiva compagnia, nessuna cretinata da adolescente, che se ne avessi fatte forse mi sarei risparmiata un anno perso in depressione, se non ricordo nulla o poco e quel poco è malvagio e velenoso del mio diciannovesimo anno di età lo devo a te, altro lo posso imputare a me stessa e alla mia età so bene quali sono stati i miei errori, le mie scelte che dicevi di condividere e ora in piena crisi economica mi rimproveri, sembravi orgogliosa i giorni delle lauree: il primo ingegnere di casa, adesso ogni giorno mi rinfacci la mia scelta, e sebbene io provi disperatamente a cercare di costruirmi un futuro a te non andrò mai bene, ci sarà sempre qualcosa per cui essere criticati salvo poi mangiarsi le parole e diventare vittime della mia rabbia quando cerco di spiegarti che le sto provando tutte e non resto immobile ad aspettare che le cose mi piovano dal cielo. L’ho capito dopo quell’anno terribile, eri al massimo della forma, hai schiacciato col dolore del tuo matrimonio finito tutto quanto, sradicato certezze e scarnificato la mia personalità, ed io a tenere tutto dentro in fondo sempre più in fondo fino a dover prendere pure le gocce per calmarmi. Da allora so che con te è una battaglia persa dall’inizio tu cerchi l’approvazione che tuo padre non ti ha dato perché voleva un maschio e cerchi l’affetto di tua madre ma lei non poteva perché non era lucida. L’hai cercato in tuo marito e poi nei figli, nessuno poteva compensare tanto dolore. Sono grande per farmi ancora schiacciare da te, ma ogni giorno ci sentiamo perché devo, e in fondo so che se non fossimo legate dal sangue non potremmo neppure essere conoscenti: troppo diverse. Quando vedo la tua aggressività in me me ne vergogno, quando sento le tue parole uscire dalla mia bocca mi spavento, mi hai dato il modello perfetto da non imitare. A volte penso che puoi pure volermi bene con quel tuo modo assurdo di scrivermi messaggi di affetto e insulti che per te ovviamente è solo un modo per spronare, non sai cos’è l’amore e mi dispiace, forse rimpiangi i tempi in cui potevi coccolarmi e non l’hai fatto e so anche, se non me lo dirai mai direttamente, che appena nata mi hai rifiutato perché quel brutto mostro voleva anche te. Non mi hai insegnato nulla, solo ad ascoltare lamenti e rimproveri, non si vince mai con te, non si può. Mi dispiace ma non posso farti da madre, mi dispiace per non essere mai la persona che vuoi tu, mi dispiace se non approvi le mie scelte e me lo fai notare, mi dispiace se non riesco a seguire le tue. Pensi di capire come mi sento solo perché hai trent’anni più di me, pensi che debba seguire le tue orme, come ha fatto mia sorella, ma io le sto provando tutte per cambiare strada, il destino beffardo mi fa tornare sempre lì, ogni sforzo sembra invano. Quella strada non fa per me e lo so già, ne ho avuto un assaggio in diversi modi ma tu vuoi che faccia quello e non senti ragione, sei convinta che non esista altro, che sia il modo giusto anche se impervio e precario come altri. Avrei voluto avere sostegno, avrei voluto che tu rispettassi le mie scelte, avrei voluto più considerazione, più “brava”, più abbracci, più favole. Forse odio quella strada proprio perché è la tua e seguirla adesso sarebbe tornare indietro di 10 anni e buttare nel cesso tutto quanto, “è la vita si deve pur mangiare”, “cosa farai a 50 anni? andrai a lavare i cessi?” i tuoi modi di spronare volgari e gretti mi feriscono e mi inabissano sempre più. Sto provando un’altra strada e disgraziatamente te ne ho parlato e adesso la riempi di fango per non farmela neppure tentare, non credo che si comporti così una madre. Non ho figli e mi hai detto più volte che vuoi un nipotino, ma vedi mamma io non faccio figli per compensare i miei dispiaceri, tu l’hai capito bene quando te lo dissi crudele e così hai tirato fuori pure l’orologio biologico, e infondo sarebbe l’ennesima cosa che non ho fatto come vuoi tu, o “non ancora” potresti rispondere. Non so se accadrà in futuro, dopo gli eventi assurdi dell’anno scorso penso solo che potrebbe accadere qualsiasi cosa in bene e in male, non posso programmare la mai vita su orizzonti temporali lunghi, non so perché non lo capisci, questo mondo non lo permette più da anni. Cerco solo di essere una brava persona, credo nei gesti inaspettati di gentilezza che come un’onda si propagano e investono all’improvviso le persone, sono una persona buona lo sai  e a te questo non piace perché sai che il mondo è crudele e meschino, “quelli buoni se li mangiano i cani” mi dicevi da piccola quando non mi facevo rispettare o quando mi vessavano.  Be’ sai che c’è mamma, il mio cane mi adora e sì preferisco essere buona o cogliona a seconda del punto di vista e provare a fare la mia scelta prima di arrendermi alla tua, preferisco essere mangiata dai cani ma insegnare ai miei figli l’empatia, la comprensione e il rispetto. Preferisco lavare i cessi piena di affetti che una donna sola in pensione che viene tenuta a distanza. Mi dispiace mamma.

Ineluttabile

Ogni volta che mi avvicino ad un minimo risultato positivo mi assale la paura… basta solo sentire l’odore della conquista,  è possibile che tu sia così assuefatta all’immobilità che la minima possibilità che lo schema ordinario possa dissolversi ti blocca?! o forse è una difesa contro la  delusione che derive da speranze mal riposte che purtroppo hai già sperimentato…

Inutile inabissarsi in uno sciame di pensieri, ciò che deve accadere accade.

 

Servirebbe?

Da ragazzina passavo il primo maggio a guardare il concerto in tv, seguivo tutta la scaletta e  aspettavo che suonassero i miei gruppi preferiti se erano presenti a quell’edizione. La folla enorme che riempiva le piazze mi spaventava, pensavo all’emozione di essere su quel palco, a quanta energia fosse necessaria per arrivare a tutte quelle persone, pensavo a come  una buona scaletta dei pezzi fosse indispensabile per cercare di far divertire il pubblico, pensavo che alcuni gruppi si adattavano meglio a certi palchi ed altri invece seppur bravi, il loro essere troppo introspettivi o troppo concentrati sull’esecuzione li faceva apparire distanti. “Ai concertoni” pensavo “ci devono andare gruppi che sanno coinvolgere e scaldar il pubblico, i cantautori più intimisti e i virtuosismi delle chitarre non sono adatti”. Allora la mia vita era tutta lì, il mio personale giudizio sul valore del primo maggio ruotava attorno a un concerto.

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Oggi non ho guardato neppure un secondo del concerto ma non per i gruppi ma per tutto quello che ci ruota intorno, le statistiche sul lavoro, i messaggi buonisti, le lamentele, gli inevitabili sospiri e le promesse ogni anno più stanche e patetiche.  Non ho voluto guardare i giornali, leggere le statistiche, che ben conosco e mal comprendo ( i numeri a quanto pare hanno più di un valore nominale).

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Ho fatto un colloquio venerdì scorso e fin qui tutto bene, non mi chiamavano da un po’ e mi ha sorpresa e agitata l’idea di potermi presentare. Quando si è fuori forma e ci si sente sempre più al margine ho pensato di non essere adatta più neppure a sostenerli i colloqui, che tutte quelle cose che dicono sullo stare dritti guardare l’interlocutore negli occhi stringere la mano con forza, dimostrare interesse per il settore, per la realtà, mai incertezza, dinamismo, flessibilità, proattività, tutte quelle cose lì le ho lette e rilette e ho sempre concluso che in 10 15 o 30 minuti non puoi capire niente di una persona, ma anche stavolta ho provato a fare le cose come dicono che si debbano fare. Pensando che il posto fosse vicino alla stazione dei treni come indicato dalla piantina online che introduce gli uffici, i capannoni, gli store presenti, ho preso il treno. Avevo mal di schiena, di quelli che prende la gamba e ti fa stare un po’ storta quando ti siedi e poi ti rialzi. Sono settimane che ho mal di schiena ma quel giorno non potevo non andare, non mi chiamano spesso e non mi lascio sfuggire un colloquio per qualsiasi contratto. Arrivata alla stazione capisco presto che la piantina sul sito non ha indicato i lavori che deviano la stradina della stazione FS verso il complesso. Così in preda al panico di arrivar in ritardo, mi attacco alla geolocalizzazione e guardo la strada, il responso: sono quasi 4 km a piedi. Che faccio?! torno indietro col mal di schiena che poi lo sai sei grande questi vogliono qualcuno che possono infilare con quei contratti a cazzo che permette adesso il governo, per la tua età non ci sono agevolazioni sei fuori lo dice anche il presidente dell’INPS, quelli nati negli anni ’80 una “generazione perduta”, ma io no, io non vado a casa, ho preso il treno prima, ho un’ora, sono un ingegnere ambientale la mia impronta ecologica oggi sarà bassa e se anche sono l’unica sfigata che cammina lungo una strada provinciale  con le auto curiose e i camion sbigottiti, io ci vado cazzo.  Poi arriva il pensiero dominante: sì sei un’idiota potevi prendere la macchina, potevi chiederla a l tuo ragazzo ma hai pensato al traffico al casino per uscire dalla città che questo posto in fondo è in culo al mondo, hai pensato che fosse più semplice  più comodo e adesso la paghi.  Cammino nonostante l’imbarazzo, so che arriverò distrutta con la schiena a pezzi verso un colloquio inutile ma ci vado perché non voglio che si dica che le persone come me vogliono la pappa pronta che tutti i ben pensanti del cazzo , mi dicano che se lo vuoi il lavoro lo trovi ma sei tu che… la schiena mi fa male, il tratto vicino al campo è breve, sembra la strada per andare verso un’altra stazione quella che dal mio paesino portava verso un altro paese della provincia con stazione e da lì si andava a Bologna a sognare di fare l’alternativa, la musicista, o solo di essere qualcuno. I camion mi passano vicino entrano dentro il complesso trasportando merci e chissà altro, poi ci sono i curiosi quelli che l’auto ce l’hanno attaccata al sedere e due passi non li fanno mai, che in città ci vengono la domenica pomeriggio e fissano tutti perché certe cose a casa loro non si vedono. Avranno avuto una bella storia da raccontare anche loro quella sera a cena:  una donna che cammina tutta impettita sul ciglio della strada, leggermente curva, con le ballerine sporche di terra per non stare in mezzo alla careggiata. Mentre cammino penso: fanculo l’ingegneria e fanculo l’ambiente che tanto non se lo fila nessuno, penso che vorrei una cazzo di auto per nascondermici dentro, per essere come gli altri e non sentirmi sfigata, per alleviare la schiena, che 4 km in fondo non sono tanti sono abituata a farne molti di più ma è la situazione che proprio non ci sta.

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Nel complesso ci sono solo capannoni, e non c’è nessuno,  non si vede una sola persona, c’è silenzio e seppure sia un’area industriale non si si sente neppure il frastuono di macchinari e mezzi in movimento, solo il rumore dei clacson della tangenziale non troppo lontana. Tra i capannoni trovo quello dove devo andare io: un vecchio edificio anni ’70 grigio e triste, un misto tra un carcere e un ospedale, formato da un corridoio che si sviluppa su dei piani, con ai fianchi vari uffici e negozi dove si compra con partita iva,  ci sono dei bar, ma anche qui le persone sono silenziose, c’è un parrucchiere ma nessuno ride e scherza. é terribilmente piatto e lineare. Ma sono arrivata e in orario e anche se ho la schiena ormai contorta, non importa devo essere sicura dinamica (dinamica?????) flessibile (flessibile????). Indosso la maschera di “va tutto bene e tra le varie e infinite possibilità sto valutando anche la vostra perché sono una persona impegnata e amo sperimentare nuove realtà”, quanto mi piacerebbe una sola volta poter dire voi mi offrite un’opportunità ed io cercherò di sfruttarla il più possibile, voglio solo fare esperienza, fare, lavorare, dimostrare, ma guai a dire una cosa del genere, che perfino quando ti sei proposta per lavorare gratis per vari studi non ti hanno chiamato, nessuno vuole sentire la puzza di sfigato, bisogna sapersi vendere e tu in questo difetti un po’. Suono il campanello esterno, mi apre un ragazza giovane vestita casual che guarda i miei pantaloni e mi fa sedere, ho messo questi stessi pantaloni per la laurea, pessimo errore, non li rimetterò mai più. “L’ingegnere viene subito”, mi dice. Finora ho fatto colloqui con due tipi di ingegneri, quelli che devi essere molto veloce e pratico da subito e se una cosa non la sai fare subito puoi levarti di torno e questa specie la posso anche capire, cercano di tirare fuori in 10 minuti le tue abilità fregandosene dell’agitazione, dell’ansia da prestazione e il resto e se quel giorno sei disgraziatamente più lento di altri sei fuori, il secondo tipo è di quelli che sa già che non ti prenderà ma ti prende per il culo facendoti mille domande per poi confutartele contro, perché ha scelto l’ingegneria? perché ha scritto questo sul cv? per lei cosa significa essere capaci? in quanti milioni di modi si può rispondere e quale è davvero la risposta giusta? questo ingegnere è diverso, è una donna poco più grande di me, mi fa accomodare in un ufficio mi spiega il contratto di tirocinio, gratis i primi mesi, poi una piccola somma mensile e poi partita iva, mi spiega cosa fa lo studio, mi chiede di descrivere le mie esperienze, le parlo brevemente di cosa ho fatto cercando di stare composta, guardano negli occhi, con voce sicura e ferma, lei esordisce “è un ingegnere chimico allora”, io le dico gentilmente che sono ambientale e ho svolto alcuni tirocini in ambito più chimico, se proprio vogliamo ridurre tutto il mondo in macro categorie, lei mi fa ripetere le cose che ho fatto e ribadisce “Chimico”. non controbatto, servirebbe?! capisco che la mail con oggetto”superamento prima selezione cv”  significa che non hanno mai letto il mio cv, mi chiede se ho domande, faccio due domande sullo studio pensando a quello che ho letto di loro e mi informo un po’ su come si svolgerà più a livello pratico la cosa. Dopo 10 minuti abbiamo finito, mi alzo dalla sedia e cerco di nascondere la smorfia di dolore per la schiena, mi dice accompagnandomi alla porta che se mi prenderanno mi faranno sapere la settimana successiva, nessuna comunicazione uguale “non hai vinto grazie per aver partecipato”. Esco e lo so, non mi chiameranno, lo sento è istinto, un sesto senso reale non dettato dal pessimismo, ho avvertito qualcosa in questa donna nella sua comunicazione non verbale che mi ha già dato il responso.  Percorro il lungo corridoio del finto ospedale, in fondo c’è il bagno, mi sciacquo la faccia metto uno di quei cerotti che fanno calore sulla schiena che avevo conservato in borsa fino quel momento. Ho 4 km a piedi e altro disagio prima di tornare a casa, percorro la strada a testa bassa, stavolta i camion non li vedo neppure, lo sconforto si è impadronito di me. Se potessi piangerei ma non lo faccio perché non servirebbe, vorrei potermela prende con qualcuno, dire che sì avrei potuto fare meglio, laurearmi prima, essere più brava, vorrei potermi lamentare dei raccomandati, dei segnalati, dei colloqui, delle offerte scarse, di quanto sembra che bisogna essere super per fare poi lavori del cazzo, vorrei potermi permettere di incazzarmi ma non serve a nulla, proprio a niente, posso solo stare con i miei errori con le mie ansie e cercare solo di perdonarmi per non essere abbastanza ma per me, solo per me. Niente musica oggi, nessun concerto, solo un terribile silenzio.

L’attesa

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Oggi mi sono svegliata con una sensazione di ineluttabilità che opprime le membra. Sarà il peso dei pensieri inutili che grava da troppo tempo?! vorrei solo un po’ più di leggerezza, almeno un accenno di strada da percorrere, basterebbe un viottolo sterrato anche solo per cominciare… rimane solo l’immobilità e l’attesa. Chissà quando le scelte passate ricadranno in modo meno precario sui piani di questi giorni…

Brucio nel vento

Bruciano ancora ferite
come aghi in un cuscino

Posso solo un attimo scappare…

Mi vestirò della tua pelle e
non perderò la mia

Abbandonerò le foglie al vento…

Le lenzuola nella terrazza viaggiano più di me ma
posso ancora chiudere gli occhi e
coprire le mani di sole

Il vento oggi asseconda i pensieri
i capelli come vesti primaverili fluttuano
nell’aria

Che resta oggi di me? Una voglia insanabile scava ancora nella carne

Pagina vuota

Il nostro amore durò una fotografia,
poi tutto scomparve, si dissolse col tempo,
l’immagine s’ ingiallì e i bordi si consumarono,
tutto ho perduto
ma non la macchina con cui fotografavi i nostri silenzi
i nostri sospiri affannati, i nostri ingenui sorrisi…
E’ tardi, lo è sempre nei film, e lo è anche per noi…

L’amore è scomparso dal mio corpo
con la sua timida bellezza,
in contrasto con i tuoi occhi sognanti e illusi…
ma ora non è più così…
la rabbia è morta come un uccello sulla strada
e l’indifferenza delle auto che lo calpestano ci appartiene.