M.E.I.

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Ricordo la giovinezza di quei giorni… ero stata assunta come hostess per uno stand di una rivista di musica, dovevamo solo stare in piedi davanti a un tavolo e dare informazioni sul sito internet e sulla rivista in generale. Io avevo 17 anni e per due giorni di fiera presi 100 euro, non essendo abituata a paghette e regali in denaro per me quei soldi, il mio primo stipendio, mi sembravano una buona cifra. In fondo non era una gran fatica presenziare al M.E.I. di Faenza. Il meeting delle etichette indipendenti era un luogo strapieno di musicisti concerti, conferenze sulla discografia e vinili.

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Avevo seguito un corso con il mio gruppo per giovani band, molti del corso avrebbero suonato in quell’occasione, noi no: non avevamo il batterista così io e l’altra ragazza del gruppo che venne con me al meeting, non pensammo di portare con noi gli strumenti per la domenica dei concerti. Mentre ero intenta a osservare la gente che entrava e usciva in questo grande capannone adibito nelle diverse aree tematiche, uno degli insegnanti del corso mi vide e mi chiese che ci facevo lì in quella veste, poi aggiunse:”be’ voi non suonate?!” io accampai scuse e lui in men che non si dica trovò una chitarra e un basso. Avremmo suonato una versione più soft, “acustica”  delle canzoni della compilation fatta alla fine del corso. Non avevo mai suonato davanti a un pubblico se si escludeva i concerti con gli altri membri del corso e la sessione di registrazione, per me era troppo poco. Iniziai a sentirmi nervosa, troppo nervosa, qualcuno mi mise al collo una chitarra enorme, con la cassa anni ’50, provai a suonarla ma non era la mia, la sentivo distante e col suo suono dolciastro non avrebbe mai saputo rendere giustizia alla durezza dell’ibanez col quale avevo composto “Marcella”. Quello che per me rendeva la canzone d’impatto era il contrasto tra l’arpeggio regolare e circolare quasi nevrotico e la dolcezza del testo. La mia chitarra con suoni più da heavy metal che rock mi sembrava inadatta a me, il suono era troppo duro e graffiante, ma era stata l’unica che potevo permettermi, la chitarra del tizio invece era  inconciliabile, troppo portata per le ballate e la nostra canzone non lo era di certo. Anche se mi sembrava di essere nel posto dove dovevo stare, dove potevo stare, in realtà per la mia inesperienza mi sentivo fuori luogo, in mesi e mesi non eravamo riusciti a raccattare che un misero batterista che suonava con band rock demenziali, grazie all’abilità del tecnico del suono la batteria nella canzone risultava brillante ma lui no, era eccentrico e mediocre. Non eravamo riusciti neppure a fare qualche prova decente e “Marcella” era saltata fuori per caso; nella mediocrità delle nostre capacità solo grazie alla pressione del corso riuscimmo a creare qualcosa. Il resto erano canzonette da poco, o almeno per me erano questo, troppo da cantautrice uterina ed io a quell’epoca ascoltavo pochissima musica femminile: tutto ciò era impensabile. Purtroppo avevo una precisa idea di cosa dovessi suonare, di come dovessero essere le canzoni ma le mie mani non erano abbastanza abili per arrivare a quel livello, per raggiungere quel suono. Inoltre non eravamo riusciti a farci conoscere nel microcosmo di gruppi del paesino che frequentavamo, tutti chiusi tra di loro non facevano entrare nessuno nelle loro cerchie. E noi di certo non facevamo nulla per essere più simpatici e disponibili. Troppo chiusi loro. Troppo chiusi noi. Tutte queste sensazioni di insicurezza, insieme all’altissima instabilità psichica familiare che stavo vivendo e che mi avrebbe portato a smettere di suonare più avanti, mi ronzavano nella testa. Così andai in bagno, che era sostanzialmente un container con tanti piccoli scomparti come quelli che sono presenti alle feste di paese o fuori di qualche discoteca all’aperto. Entrai in uno di questi comparti muniti di tazza,  chiusi la porta di lamiera e mi sedetti. Pensai a cosa fosse meglio fare, alla paura e all’ansia che saliva lenta dalla bocca dello stomaco e che non si stava palesando come eccitazione ma vero e proprio vomito, pensai che non ce l’avrei fatta,  ero troppo sotto pressione e mi misi a piangere, così decisi che non avrei mai permesso a me stessa di avere di quel giorno un ricordo negativo in cui sbagliavo le note e perdevo la voce. Avevo preso la mia decisione in un cesso sporco e maleodorante e da quel momento in poi tutto assunse un sapore metallico. La nausea aveva sostituito l’ansia. Mi dissi che non mi sarei mai più ritrovata in una situazione del genere, che avrei avuto altre possibilità in futuro, che non sarebbe stata l’ultima volta, fui contenta che l’evento finisse quella sera, così potevo tornare a casa con la mia delusione e il mio rimpianto bello e fatto. Potevo raccontarmi qualche storiella per dirmi che andava bene così, che era la cosa giusta, che in fondo non era nulla di che, ma nel profondo sapevo che sarebbe diventata una delle prime cose da inserire nel cassetto della rimozione. Dimostrai quel giorno che mi portavo addosso troppo, troppe ansie, troppe paure, troppo me stessa sul palco. Non ero ancora matura. Passarono anni prima che quel ricordo fosse sostituito da uno più piacevole legato a  Faenza: un pubblico di ascoltatori ed io in piedi a leggere nel silenzio pezzi del mio racconto. La paura era passata.

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Marcella

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Sale lentamente le scale

aspettando l’ansia cresce in me

ogni volta viene mostrandomi

il suo sguardo timido ubriaco

sento sulla pelle il sapore

di qualcuno che non voglio avere

sento che mi manca

il respiro ma

gli amanti infedeli si perdonano sempre

Guardami 

Sono qui 

Guardami 

Sono qui sono qui

Tento di riprende l’abitudine

anche quando amore 

sembrava reale

perché questo è uno strano gioco

perché questo è uno assurdo gioco

Guardami

Sono qui

Guardami

Sono qui sono qui

Io sono qui

 

Testo di una canzone registrata nel 2003 in uno studio di Milano, con un gruppo di nome Exit, liberamente ispirata a Marcella personaggio de “L’età della ragione” di Sartre e mia madre.

Pensieri

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Una giovane donna dai capelli rossi e corti viaggia su un treno, la pelle bianca riflette la dolcezza di una giovinezza non ancora sfuggita, un fermaglio lega sulla nuca i capelli, solo una bacchetta ferma la fragile struttura che lascia scivolare sul collo qualche ciocca, lo sguardo sereno segue il panorama dal finestrino. Un vestito azzurro con piccoli fiori bianchi e ai piedi delle zeppe fucsia. Non abbastanza stoffa copre le gambe bianchissime e magre, nulla in lei ha un accenno di volgarità, la pelle nuda alla vista dei passeggeri stanchi non richiama a nulla di spregiudicato, c’è una leggerezza nel suo corpo e nel suo viso difficile da afferrare, il resto dei passeggeri giace attaccato quasi immobile al proprio sedile: troppo reali, troppo umani, con le loro magliette scure, le fronti sudate e corrugate in qualche pensiero insistente. Dov’è la leggerezza?!, nessuno di loro potrebbe staccarsi da terra perché ben ancorati alle proprie certezze, ai propri problemi; è questa la società che ci siamo costruiti… siamo vivi finchè ci sentiamo ansiosi e affannati per qualcosa, attaccati e infossati nel terreno non riusciamo a muoverci e guardiamo con sdegno e invidia chi si solleva, troppa paura di non avere paura.

Il corpo raccoglie tutto

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Sarebbe stato diverso se non avessi iniziato io? se non fossi rimasta qui troppo a lungo sola con lui nell’altra stanza? sarebbe stato diverso?perché devo sempre perdonarmi qualcosa?, perché non posso semplicemente essere qualcosa di buono di proficuo, giusto?! Ho iniziato a scrivergli perché volevo si innamorasse di me, ma non è andata così non posso dire di essermi io innamorata di lui, sono così stravolta e così persa che non saprei più dire cosa possa significare ora questo desiderio. Non sento niente e non so dove sto andando, non sarei qui altrimenti, non sarei qui a sputtanare i miei pochi soldi, a spremere le mie viscere davanti a uno sconosciuto, a trattenere per la vergogna lacrime che questo corpo, che non sento mio, getta al mondo, come per chiedere aiuto e ribellarsi dalla sottoscritta; siamo stati fatti insieme, il corpo non è tuo lo dovrai restituire, questo mi dicevano da piccola, non puoi suicidarti perché non è tuo, non puoi fargli del male perché non è tuo, se non ho potere neppure sul mio copro che non è mio perché mi è stato dato? per avere una stupida forma che possa vagare e fare quello che deve nel mondo?! il mio corpo non è questo ed io non voglio stare qui, mi ci ha portato lui, ed ora sono costretta ad aprirmi a far vedere ciò che la mia pelle i capelli le mie ossa nascondono. “Come stai oggi?”

Il corpo raccoglie tutto, lo assorbe e lo tiene stretto, sembra si possa andare oltre all’inizio ma non è così, sei convinto per un po’ d’ aver dimenticato, di essere andato oltre, ma non è così. Il corpo respira le ansie, le paure, le gioie e poi te le rovescia contro al momento che ritiene opportuno, con una memoria, ti ridona le stesse emozioni, anche quelle che vorresti cancellare ma non si può. Ho cancellato interi pezzi di vita, anni, ho solo qualche ricordo vago, qualche sensazione, tutto è obnubilato, ogni tanto un odore, una situazione, un’espressione su un volto, alcune parole riaprono camere oscure, pensieri lontanissimi. E’ per questo che si va dall’analista: bisogno di avere qualcuno al proprio fianco per entrare in queste zone d’ombra. Non ho paura del buio, da piccola ho deciso che non dovevo averne e così mi sono costretta a stare un’ora al buio da sola sul pianerottolo delle scale, i miei pensieri di bambina mi portavano a immaginare mostri e strane figure, mi bastava allungare il braccio, nessuna massa, nessun corpo davanti a me, i miei occhi mentivano, la mia mente si prendeva gioco di me, così non mi fido del mio corpo. Entrare nei ricordi rimossi è più difficile, ci vuole coraggio estremo, è come vedere un vecchio film che ci ha talmente emozionati da non poterne sentire più neppure la colonna sonora, che appena partono quelle note lo sai che succede, si apre una voragine subito sotto al seno, il cervello rimanda un impulso agli occhi, gli ordina di piangere, senti subito che è lì la tua stupida e inutile lacrima, simbolo di un amaro fastidio, ma il tuo corpo ha deciso ha assimilato tutto, ricorda esattamente che hai pianto e ti sei emozionata alla vista di quelle immagini e ora beffardo ti rimanda tutto insieme. Nei vecchi ricordi quelli dimenticati bisogna attuare una sospensione del giudizio, per non rimanere nuovamente feriti, guardare il tutto come spettatori ubriachi, che vorrebbero interagire e infastidiscono lo spettacolo e gli attori, ciò che vedono non gli piace li disturba, “non è andata così” si dicono, non erano esattamente quelle le parole che mi hai detto, ed io? che ti risposi? il tempo addolcisce i fotogrammi, scavando scavando prevale poi la propria indole, dare tutta la colpa agli altri o a se stessi, be’ io appartengo al secondo tipo, sono certa che in un modo o nell’altro avrei potuto fare meglio, per questo sono qui: imparare a sospendere l’eccessivo giudizio verso me stessa.

Allora Giulia come stai? sto, vorresti rispondere, che in sé rappresenta una risposta fin troppo significativa, e tu non vuoi dare alcuna soddisfazione a questa persona davanti a te. Allora perché sei qui? che senso ha spendere 50 euro a seduta? che senso ha? sto meglio, le rispondo e mi pento quasi subito di questa risposta, meglio? rispetto a cosa? hai già detto al tuo analista che sei stata male, ogni parola viene analizzata, gli stai chiedendo aiuto in modo stupidamente subdolo. Dimmi, posso darti del tu? sei così giovane… ogni volta che mi dicono così penso ai miei anni e a cosa può significare “così giovane”, forse è solo un modo per rompere il ghiaccio, un modo per avere meno formalità in fondo pensaci Giulia stai per raccontare della tu vita a questa sconosciuta e vuoi davvero nasconderti dietro a un “tu”, un “lei”?! forse se non dovessi vedere qui, ora, il suo sguardo imperturbabile non ci penserei e avrei già iniziato a sbrodolare parole su parole.
“sto leggendo questo libro strano di Grossman, sono lettere e l’ho regalato a mia sorella per Natale, non mi ha ancora fatto una recensione lei, ma più lo leggo, e più penso a come si possa cercare conforto e confronto con estranei. C’è così tanta disperata passione e desiderio, mi imbarazza il modo in cui lui si apre così indifeso senza alcuna barriera, apre tutte le possibili porte e la porta dentro, la costringe ad entrare nel sua testa, nella sua anima, nel suo corpo, lui le esprime un desiderio che non ha intenzione di esercitare dal vivo, lei è la sua compagna reale per il suo viaggio immaginifico”.
Non so bene come comportarmi, se sbaglio le parole lei penserà cose diverse ed io resterò con quell’immagine appiccicata addosso, “ho iniziato ad andare in piscina, superato l’imbarazzo iniziale so di fare la cosa giusta, per il mio corpo il mio fiato, il mio cuore. E col costume intero, che è per definizione un’ ingiustizia per ogni corpo, sto meglio di quanto immaginasi, è stata una piacevole sorpresa, vedersi più bella, credo di aver cambiato sguardo su me stessa, lo sto addolcendo”. Ho solo questo corpo questa anima e questa possibilità di vita, bisogna che me ne prenda cura, per questo sono qui, vorrei aggiungere, ma mi fermo e il fatto di stare nella sagrestia di una chiesa, mi fa pensare che la mia anima centri sempre più. L’ambiente è austero e fermo, mobili di legno scuro, pareti ricoperte in legno fino a metà altezza, sullo scrittoio davanti a noi certificati di battesimo da compilare, non mi sento a mio agio su questa sedia austera e dura, dallo schienale alto e massiccio. Sono in imbarazzo per la situazione e il luogo, non vado mai in chiesa, e parlare dei cazzi miei qui mi sembra inappropriato, anche solo pensare la parola “cazzi” è inappropriato, ma era la psicologa che costava di meno. Ha i capelli ricci arruffati, si sente un leggero accento del sud, ha un modo di fare spigliato e disinvolto ma lo trattiene, non vuole essere invadente, sento che è la classica donna con cui proverei imbarazzo in una situazione informale come un aperitivo, percepisco la sua sicurezza almeno tanto quanto lei sente la mia reticenza. Mi chiedo quanti anni abbia, fa differenza? davvero questo ti importa? sono in qualche modo ossessionata dall’età delle persone accanto a me, con cui lavoro, razionalmente so che non ha senso ma mi rendo conto di chiedermi l’età delle persone solo per potermi ferire, solo per poter fantasticare sulla loro vita e poterla confrontare con la mia.
Sono così rigida che potrei essere scambiata per un complemento d’arredo, se la sedia potesse inghiottirmi gliene sarei grata a vita, invece no, resta lì più rigida di me e così accavallo le gambe per sembrare più sciolta. “Perché sei qui?è la prima volta che vai da una psicologa?” mi chiede. No ovviamente non è la prima volta, prima c’è stata Silvia, e adesso tu Alessandra. Scelgo donne perché credo che mi sentirò più a mio agio, come dal ginecologo, perché credo che toccheranno con più leggerezza le parti più intime e poi se fosse un bell’uomo sì me ne infatuerei, lo so, e soprattutto detesto piangere davanti agli uomini, dai loro l’ennesima prova che le donne sono troppo emotive e frignano in continuazione ed io non sono così, non voglio essere così.

Gara di resistenza

“Ogni giorno ci provo a resistere, a ricominciare, a non arrendermi perché anche se è difficile, anche se sembra che remi tutto contro appartengo alla parte del mondo fortunata, ma non pensavo che avrei conosciuto il significato di alcune parole come disposofobia, parafilia, stato vegetativo, e una vecchia parola che torna ad accogliermi lenta, inesorabile e feroce. Sta ricominciando a riavvolgersi a me, e non voglio neppure pronunciarla così non diventerà reale, ma la sento, o meglio sento il suo velo pallido e opalescente avvolgermi lentamente, ogni giorno ad ogni nuova frustrazione un lembo di pelle in più, una piccola macchia di delusione che si nasconde in un tutto che fagocita gli eventi e i ricordi…”. Questo scriveva Giulia mentre ascoltava qualcuno al piano di sopra fare scale con un violino, nel palazzo quei suoni quasi stonati rimbombavano e lasciavano che i pensieri del giorno inondassero la mente.  In un anno aveva avuto modo di conoscere gli occhi dello stato vegetativo e aveva dato un nome alla mania del fratello e del padre. Dopo anni che non visitava la casa venerdì sarebbe andata a vedere la manifestazione della “pazzia” come diceva sua madre. In quella casa aveva passato i primi vent’anni della sua vita, si ricordava di quando da piccola giocava a fare dei rifugi con le sedie e le coperte, di quando aveva iniziato a suonare, della radiolina del padre che ascoltava la notte per addormentarsi e poi c’era il suo pupazzo preferito, i baci al cuscino, le prime parole scritte per una cotta. Tutta la sua infanzia e la sua dura adolescenza erano trascorse là in quella grande casa che puliva ogni fine settimana prima di fare i compiti per aiutare la madre. Non si spiegava perché ogni volta che pensava alla casa arrivavano prima i ricordi tristi e poi sforzandosi un poco una sensazione più dolce  la avvolgeva, ma c’era sempre un disagio, come di qualcosa di perduto e non afferrato fino in fondo, qualcosa di non vissuto che poteva venire meglio ma ormai era passato per sempre. Il processo di rimozione che aveva messo in atto dopo l’anno X aveva compromesso molti dati della memoria, restava solo quella sensazione amara di fondo. La casa era il simbolo di dove non voleva stare e l’ultima volta che vi era entrata la pesantezza degli ultimi anni vissuti là dentro l’aveva raggiunta. Sì quel luogo era il simbolo di tutto ciò che non andava e che voleva dimenticare e ora veniva sommerso piano piano nei problemi dei suoi familiari. Oltre la pesantezza e il disagio avrebbe provato fastidio e repulsione lo sapeva e proprio questa repulsione verso il passato, non ancora affrontato fino in fondo e verso il presente malato, l’aveva tenuta lontana chilometri, ma le distanze fisiche si moltiplicavano quando si sfociava nell’affetto. Come aiutare qualcuno che non conosci veramente? come aiutare qualcuno che non vuole farsi aiutare? La casa rappresentava tutti i fallimenti come famiglia, e nello specifico i suoi come sorella, bambina, ragazzina, amica, musicista, giovane donna, e ora da adulta le veniva chiesto di affrontare problemi molto più grandi dell’età che aveva, e forse pensava non si è mai abbastanza adulti per dover vedere i propri familiari spegnersi lentamente  nella paura e nella solitudine. Non pensare, affogare la pesantezza e restare composta e indifferente, avrebbe fatto così, da adolescente aveva funzionato contro la solitudine, contro i bulli, forse la stessa tecnica l’avrebbe salvata anche stavolta e poi una volta tornata alla sua nuova casa, nella nuova vita, avrebbe abbracciato il suo compagno e ripreso la sua routine e la rimozione naturale avrebbe fatto il resto. Tutto chiuso in fondo, sempre più in fondo, prima o poi avrebbe aperto tutto ma non ora, adesso doveva solo resistere.

Confessioni

Esperimento a quattro mani, ringrazio Elena B. per aver provato a calarsi con me in questi due personaggi.

10/10/2010

Ti scrivo solo perché mi è stato fortemente consigliato, che è un obbligo, un’imposizione a metà. Ho iniziato la terapia, 1 volta a settimana, per ora solo una seduta. Mi aiuterà ad accettare, dicono, a superare…
Io non li capisco, non sono come le altre che sono in questo posto. Le vedi girare con lo sguardo stralunato, gli occhi fissi su un obiettivo che non esiste più.
Altre sono tranquille, accettano o hanno rimosso, come dice il dottore ma io non c’entro nulla. No, devo solo resistere… la verità verrà fuori.
Ieri è venuto l’avvocato, mi ha detto che ricorreremo in appello, che non è finita, ci sono cavilli, dice, che possono ridurmi la pena. Vuole che ricorra al rito abbreviato…
Assurdo essere catapultati improvvisamente in questo tipo di realtà. L’avvocato dice che resterò qui ancora dei mesi. Non è così male; i primi dieci giorni non sono stati così pesanti. Ho una cella ( a me piace chiamarla stanza) tutta mia e a parte le inferiate strette alle finestre e la porta blindata, non è neppure così piccola, dagli spazi tra le grate, appoggiando le guance al freddo metallo, l’occhio arriva lontano e vede una casa. Le luci sono sempre spente, solo l’altra sera mi è sembrato di udire l’abbaiare di un cane, chissà se proveniva da lì.
Tutti i giorni abbiamo due ore in cui possiamo essere libere di acceder al cortile. Ho visto una donna con i polsi fasciati che fumava, dicono abbia tentato più volte di togliersi la vita. “è arrivata alla decima seduta!!” è così che la chiamano qui. Dopo “capisci… sai… “. Almeno così mi ha detto Chiara: “La chiamano così solo perché già in due si sono suicidate dopo, ma considerando il numero delle “ospiti” è ben sotto la media… mi sa che conta poco la statistica qui dentro.”
La statistica… e chi ci pensava più?!! È dai tempi dell’università che non penso più a certe cose e mi piacevano tanto ma sai, dopo aver avuto Matteo, e il lavoro non avevo più il tempo per “campionare il mondo”.
Paolo non è ancora venuto a trovarmi. Hai sue notizie? Non lo vedo dall’udienza: lo sguardo fisso, la schiena dritta perfetta coem se fosse un filo a tenerla su, un filo appeso chissà dove lassù. Credi che verrà? E tu verrai?
Portami dei libri e le sigarette, ho un gran bisogno di distrarmi.

20/10/ 2010

Ho visto una donna in cortile, una nuova. L’hanno messa qui in attesa della sentenza. Chiara mi ha raccontato cose orribili su di lei; l’hanno trovata col coltello in mano, suo marito credo. Appena lo ha visto gli si è scaraventata contro ed ha tentato di metterglielo in mano per farsi uccidere. Certe cose fanno accapponare la pelle!!! Che c’entro io con queste persone?!!
Domani devo andare alla seconda seduta, è passato più tempo perché il dottore era impegnato, fuori città. Chiara dice che sarà stato a sedare la pazza del cortile. Ha lo sguardo dolce, anche adesso che me la ritrovo davanti con quella sua copertina stretta tra le mani, uno straccetto davvero ma lei lo stringe così forte che rimangono i segni delle unghie sul palmo delle mani. Hanno provato a togliergliela ma inizia a urlare, un urlo straziante, come se le stessero staccando un braccio o le stessero cavando gli occhi, un urlo tutto che viene da dentro, come ad esprimere un bisogno così interiore e primitivo che solo le urla possono esprimere. Come fanno i neonati col loro pianto, capisci? Nel suo sguardo non c’è paura nessuna paura, non c’è possibilità per questo genere di sentimento e questo mi stupisce e mi fa gelare il sangue. Come di chi ha affrontato la morte ed è tornato indietro e ora di che potrebbe avere paura?! Se perdi tuo figlio , cosa può farti ancora paura?!

25/10/2010

Ciao.
Non sono sicuro che scriverti a mia volta sia una buona idea. La mia testa è arruffata. È difficile sciogliere i molteplici nodi che la affollano, nell’estenuante tentativo di stendere i pensieri lisci e fluenti sul foglio bianco. Tu sei sempre stata più brava di me in queste cose. Questo paragrafo… è la quinta volta che lo ricomincio.
Sai, quando oggi sono venuto a farti visita, mi sono ricordato di quando eravamo piccoli, e tu litigavi con la mamma. In realtà ero io quello piccolo, un bimbetto gracile e svogliato che passava più tempo a lagnarsi che a giocare e a svagarsi con gli amici. Tu invece eri grande, ma per la mamma rimanevi sempre piccola e sfigata quanto me. E allora continuamente ti arrabbiavi. A tavola un giorno sì e uno no volavano parole pesanti e persino qualche piatto. Ricordo ancora il giorno che tu lanciasti gli spaghetti al pomodoro contro il muro. Lasciarono una larga strisciata rosso-arancio cha arrivava fino al pavimento, e che poi nessuno si prese più la briga di pulire e ripassare con una mano di vernice bianca. Dopo le urla e gli schiaffi tu correvi come un razzo su per le scale – rammento come fosse ieri lo scalpiccio infervorato delle tue ciabatte e lo sbattere violento della porta della mansarda, la tua camera. Poi ti sentivo piangere, dabbasso – i muri erano così sottili, si sentiva sempre tutto. Aspettavo una mezzoretta, giusto per lasciarti sfogare, poi salivo da te e bussavo alla porta. Tu sapevi che ero io. Subito dicevi: “Va’ via!”, ma poi mi venivi ad aprire. Sempre. Non mi hai mai lasciato fuori. Mi portavi sul letto con te, e continuavi a piangere un altro po’, tenendomi stretto. Ricordo ancora la sensazione della tua guancia umida contro la pelle.
Anche oggi sei scoppiata a piangere, in quella stanza asettica, dove per dieci minuti ci hanno lasciati soli. Soli ma costantemente osservati. Sai, avrei tanto voluto abbracciarti. Perché non l’ho fatto? Non lo so.
Non sopporto vederti rinchiusa lì dentro, in mezzo a tutti quei pazzi. Tu non sei pazza. Avrei solo voluto portati a casa con me. Ma dobbiamo avere fiducia nell’avvocato. Lui è uno competente, papà si fidava di lui. Vedrai che in appello riuscirà a fare qualcosa. Io non me ne intendo, di queste procedure giuridiche, ma sono certo che troverà un modo.
Appena sono rientrato ho litigato con Viola. Lei era lì, davanti allo specchio, a truccarsi e a farsi bella. A volte penso che sia questa la sua principale occupazione. Sara stamattina ha preso un brutto voto nel tema, e per questo Viola mi ha accusato di essere un padre troppo assente. Forse ha ragione, ma non è colpa mia se la mia testa vaga sempre altrove. Scusami anche tu, se sono venuto a trovarti la prima volta solo oggi. Non è perché non pensassi a te. Io ti penso tutti i giorni. È solo che non riesco a essere il bravo marito, il bravo padre e il bravo fratello che vorrei.
Ho scritto solo delle stupidaggini. Scusa. Probabilmente ti faranno stare solo peggio. Non ti scriverò più, se lo desideri. Non sono bravo in queste cose. Non sono bravo.

Un caro saluto,
Gabriele

P.S. Non ho ancora sentito Paolo. Proverò a telefonargli in questi giorni, te lo prometto.
P.P.S. Spero che ti piacciano i libri che ti ho portato. Io non leggo, lo sai, e allora ho preso alcuni romanzi di Viola.

4/11/2010

Ho aspettato a scriverti perché mi sentivo come muta dopo la tua visita. Sono stata in silenzio per giorni, solo il fragore del respiro a interrompere l’assenza di suono. E qui c’è davvero assenza di suoni, di suoni belli almeno, quelli di casa, come le posate quando toccano la ceramica del piatto mentre si arrotolano gli spaghetti sui rebbi di una forchetta, o i cucchiaini nelle tazze con il latte la mattina, o l’inzuppare dei biscotti, hai presente il suono di mezzo biscotto imbibito di latte che cade a terra e svelto il cane a leccare, o il suono dell’acqua che scorre nella doccia calda del mattino, le auto fuori in strada, le ruote del passeggino che strisciano sul marciapiede, il bidone della spazzatura che si apre col suo suono sordo e cupo, gli strilli dei bambini al nido, mi manca il suono del mio bambino quando succhiava dal mio seno, il suo chiedere attenzioni col pianto: mi manca la mia famiglia. È stato bello vederti e terribile, hai cercato di distrarmi di parlarmi di ciò che ti succede come hai cercato di fare lo stesso in questa lettera, sei sempre stato così dolce. Non riesco a pensare a giorni felici del passato qui, sento solo il peso dei giudizi di mamma e papà, che dice mamma? No anzi non voglio saperlo, e papà lui non può vedermi almeno. Lo so che direbbe mamma, “non sei brava neppure a fare la madre e a tenerti un marito, che è una cosa naturale!!” o forse sono troppo dura con lei. Paolo non è ancora venuto, sono passati parecchi giorni, “ha bisogno di tempo…” così dice il dottore, il tempo è qualcosa che ha una misura diversa qui dentro, non si misura in ore, secondi, ma in stati di agitazione, pianti, sedute. Di tempo ne ho pure troppo, l’ho sempre sostenuto pensare troppo fa male, non avere nulla da fare fa male, rimani solo con te stesso e non è detto che sia una piacevole compagnia. Dei libri ne ho iniziati alcuni, tutti insieme, per non restare sola mai, così esco da una storia ed entro subito in un’altra. Alcuni sono un po’ mielosi per i miei gusti ma va bene, quelli più noir e gialli, li leggerò più avanti non riesco a leggere alcune scene forti, mi viene un forte mal di stomaco e i conati arrivano forti, come se qualcosa volesse stritolarmi da dentro. Una nausea del genere l’avevo nei primi mesi incinta, e mi chiedevo come una cosa tanto bella come un bambino potesse farmi tanto male da costringermi a rimettere tutti i giorni, verso il quarto mese mi ero convinta che fosse il mio corpo a non volere bambini, il mio corpo si ribellava alla natura e tentava di punire le mie scelte. Poi le nausee si sono placate e alla fine è arrivato Matteo. I giorni vicini al parto ero così in ansia e spaventata, avevo paura di non farcela, che il mio corpo non ce l’avrebbe fatta, avevo paura del dolore. E poi ecco quell’esserino così fragile creato attraverso me. Non riesco a non piangere se penso a certe cose. Matteo mi manca, me l’hanno portato via ed io non mi perdonerò mai per averglielo permesso e Paolo questo non può capirlo. Scusami se ti ho parlato di queste cose, ma i giorni passano e vorrei tanto un abbraccio sincero. Me ne dispiaccio che tu non sia riuscito a farlo quando sei venuto ma capisco che non fosse così semplice per te.

A presto

 

 

Sembrava un giovane puledro

A volte per andare avanti bisogna tornare indietro, alle origini. A prima delle delusioni, a prima delle scelte sbagliate, a quando si poteva ancora scegliere e non si doveva solo accettare il risultato; il problema è non sbagliare la data del ritorno, altrimenti si rischia di ritrovarsi in un 1985 alternativo. Riccardo, di queste cose da grandi, ancora non sa nulla: lui è nato molti anni dopo Back to the Future, e sa solo che è dura essere figli di una madre senza lavoro fisso. Dura perché non può comprare tutto quello che vorrebbe, dura perché – anche se cerca di essere sostenuto e di non uscire mai dal personaggio dell’adolescente troppo incazzato perfino per incazzarsi, personaggio che spesso gli sta stretto – sente già che c’è dell’altro. Qualcosa che ancora non sa afferrare pienamente, ma altro. Quando vede sua madre tornare stanca, con le mani sgualcite e gli occhi pesanti e gonfi per le troppe notti trascorse sveglia a cucire, per troppe mattine passate a stirare e a passare lo straccio su pavimenti di altre case, in quei momenti in cui lei gli getta quello sguardo grave, Riccardo sente come una pesantezza che lo schiaccia e lo trattiene a terra. Sente una colpa per ciò che non può fare, sente una colpa per quel padre che li ha lasciati. Riccardo queste cose non le sa dire e non le può dire, non vuole dare altro dispiacere alla madre, se le tiene lì in un cofanetto immaginario dove agli uomini è concesso piangere, essere tristi, provare odio, rancore e rabbia. Tantissima rabbia.
La passione è una forma di amore che ha bisogno solo di essere sfogata. Certe passioni non hanno bisogno di nutrimento: ti prendono fin dentro le vene, diventano parte stessa del tuo essere. Certe passioni vengono trasmesse, magari dal padre, altre nascono spontaneamente, forse per un colore, o l’espressione di qualcuno. Riccardo, senza sapere né come né da dove, si è scoperto interista: non tifoso dell’Internazionale Milano, ma interista, che per quelli come lui, si sa, essere interisti «è un’altra cosa», un modo di essere, di pensare, di agire, di mangiare, bere: tutto passa attraverso una zona del cervello nerazzurra prima di arrivare alle altre parti. Riccardo è così interista che anche se ha solo quindici anni sa tutto della sua squadra. Ha fatto uno studio approfondito, conosce le rose del passato e ovviamente sa quando è nata la squadra: il 9 marzo del 1908, al ristorante L’Orologio di Milano, da un gruppo di dissidenti del Milan. La parola dissidente lo affascina, qualcuno che prende coscienza del suo essere nel posto sbagliato e decide di cambiare, di stravolgere le regole, perché non siamo tutti predestinati, perché si può essere e fare altro. Riccardo ama così tanto la sua squadra che ha convinto la madre a comprargli la maglia del capitano, quel capitano che ha visto solo una volta dal vivo a San Siro; era il suo compleanno, aveva risparmiato ogni soldo dato dalla madre, perfino le monete da un centesimo, si era affamato durante gli intervalli a scuola, non era uscito per mesi, ma finalmente aveva potuto permettersi un biglietto per lo stadio. Quella volta, la sua prima volta, era andato con Giulio e suo padre. Secondo Anello Arancio Distinti Centrali: una spesa immane per lui, ma non voleva essere da meno rispetto all’amico e voleva sedersi in un buon posto per poter ammirare tutte le azioni. Appena salite le scale e percorso il corridoio centrale, Riccardo si era ritrovato di fronte il campo. Tutto era così maestoso, le torri che dominavano agli angoli, gli altri settori quasi pieni e il vociare delle persone. Da lì si sentiva come posseduto, non poteva credere di essere così vicino al gioco. Dopo aver urlato fino a sgolarsi i nomi dei giocatori, aveva assistito con ansia e apprensione a ogni loro movimento; seguiva la palla come un cucciolo di cane segue un biscotto. Non poteva perdersi nulla, a ogni fallo fischiato sentiva gli umori dello stadio, i fischi, li percepiva dentro di sé. Non era così spavaldo come alcuni spettatori che si alzavano e iniziavano a urlare contro non si sa bene cosa, perché da quella distanza vedere o non vedere un fuorigioco era davvero impossibile. Si sentiva onesto, Riccardo, di quelli che «se il fallo c’è, è giusto che venga segnalato». Il capitano lo aveva ammaliato: correva e correva come in quella canzone di Guccini che piaceva alla madre: «sembrava un giovane puledro / che appena liberato il freno / mordesse la rotaia / con muscoli d’acciaio / con forza cieca di baleno». Era felice, così felice da pensare che avrebbe anche potuto morire lì, in quello stadio, in quel momento, come quel tifoso che l’anno prima era morto durante il derby e si era perso tutte quelle vittorie. Riccardo, da ragazzo nostalgico è convinto che le abbia viste lo stesso, con Facchetti, lassù.
La maglia della squadra è quella della stagione in corso, con le bande nerazzurre leggermente più strette rispetto alle precedenti; è stata una grossa spesa, ma la madre voleva accontentare il suo unico figlio. Riccardo la tiene in camera come una reliquia e la tira fuori solo quando può andare a casa del suo amico Giulio a vedere la partita. Giulio ha la tv a pagamento e così guarda tutte le partite dell’Inter. Il padre lavora in banca e la madre insegna all’università. I suoi genitori possono permettergli di avere tutto ciò che vuole, ma non per questo è uno stronzo arrogante come altri della sua classe: Giulio è suo amico e condivide con lui anche la passione per le moto, e il motorino. Quello a Riccardo è stato regalato dal cugino, ha ormai milioni di chilometri ed è bello frusto, ma per Riccardo è la sua moto, il suo bolide. Quando potrà permetterselo gli farà delle modifiche, per ora vuole solo sentirsi come i campioni della MotoGP. Ha messo un numero sulla carena, il 58, quello di un certo ragazzo romagnolo che fa tanta simpatia alla gente, e che non sembra neppure reale, da quanto è spontaneo e genuino. Un predestinato, pensa Riccardo; ha un modo di correre impulsivo, puro istinto, e questo a Riccardo piace; è più alto rispetto agli altri piloti e sulla moto è tutto rannicchiato, come un fantino sproporzionato per il suo cavallo, ma si sa, la storia regala anche coppie male assortite che fanno miracoli insieme: in America, negli anni ’30, un fantino troppo alto e un cavallo un po’ più basso della norma – un certo Seabiscuit – avevano vinto le principali gare di ippica, quindi non ci sarebbe da meravigliarsi se il ragazzo tutto ricci stabilisse nuovi record. Riccardo lo segue dal suo primo titolo conquistato nella classe 250 del 2008. «Cade troppo spesso» dicono i maligni. «Ha un modo di guidare troppo istintivo, così non le regge tutte le gare in 500» lo critica Giulio. A Riccardo piace proprio perché non molla mai, è sempre pronto a rialzarsi, perché non ha paura di andare oltre i propri limiti, è competitivo e vuole dimostrare che può essere il migliore. A Riccardo piacerebbe essere il migliore anche solo una volta: la vittoria la potrebbe ricordare per anni, la userebbe per incantare le ragazze: «io sono quello che…», e una volta conquistata quella giusta la potrebbe raccontare per anni a Natale e a Pasqua ai figli e ai nipoti. «Vi ho mai raccontato di quella volta in cui vostro nonno ha dimostrato di essere il migliore?» Ovviamente nella fantasia di Riccardo tutti amano quella storia, e quando la racconta arriva un silenzio carico di rispetto, ma lui che è sempre così scontroso, lui che è spesso silenzioso e assorto nei suoi pensieri, non si sente mai il migliore, colui che può emergere, quello predestinato a cambiare il mondo.
È la seconda stagione in MotoGP del ragazzo tutto ricci. Riccardo ha seguito ogni gara: il primo anno non gli avevano dato la moto ufficiale del team Honda ed era stato, diciamo, l’anno di prova. Non aveva fatto benissimo, ma non era stato neppure tra i peggiori. Il secondo anno finalmente gli avevano dato la moto ufficiale; per tutta la stagione ha avuto un percorso altalenante, passando da ritiri a buoni piazzamenti. I compagni si lamentano della guida pericolosa, perché cadendo spesso rischia di far cadere anche altri piloti. Il campione tutto ricci se ne infischia e va avanti, sa che arriverà la sua occasione per fare bene, per dimostrare che anche nella classe regina può essere tra i migliori: in Australia è arrivato secondo e ormai mancano solo due gare. Il 23 ottobre l’Inter gioca contro il Chievo. Riccardo spera che arrivi una vittoria, perché la stagione è iniziata male. «Siamo già al secondo allenatore in sole sette giornate di campionato!» dice a Giulio al telefono. Riccardo quel giorno non può andare a casa dell’amico a guardare la partita, ma c’è la gara delle moto in chiaro; Riccardo si siede sul divano e accende la tv. I piloti sono sulla griglia di partenza, il ragazzo con i ricci ha un asciugamano in testa e la fidanzata che gli tiene l’ombrello. Riccardo è solo in casa, si alza per prendere una bibita dal frigo; quando torna al televisore è appena finito il primo giro e da poco iniziato il secondo, ma ecco che, a una curva del circuito, si vede una moto che percorre trasversalmente la carreggiata. La moto ha il numero 58: il pilota che sta cadendo non la vuole lasciare, non vuole arrendersi, non vuole ritirarsi solo perché è caduto di nuovo, è convinto di farcela a rialzarla. Ma poi arrivano le altre due moto che gli stavano dietro. C’è uno scontro, inevitabile. Le due moto investono il pilota, che perde il casco e giace da un lato della carreggiata, immobile, i ricci sull’erba, la voce preoccupata del commentatore. Sono istanti lunghissimi anche per Riccardo, che trattiene il fiato e pensa: “No, dai, adesso si rialza…” Riccardo immagina la scena che vorrebbe vedere: il ragazzo che alza il braccio per salutare e tranquillizzare il pubblico e gli spettatori a casa, che porta la mano alla testa come per sottolineare la forte botta appena subita; la telecamera che inquadra l’espressione di fastidio per aver perso l’occasione di finire la gara, il padre che lo raggiunge in pochi minuti, si sincera della sua condizione, lo abbraccia cercando di placare anche l’orgoglio ferito.
Invece i secondi passano: Riccardo non respira, è immobile, impietrito. Il ragazzo tutto ricci non si alza, è fermo immobile anche lui. I paramedici gli mettono un respiratore e lo portano alla postazione di soccorso, Riccardo è ancora paralizzato, non può pensare ad altro che a quella scena, la caduta e la moto dell’amico che gli sale sopra; pensa che il destino, il fato, Dio, sono grandi sceneggiatori di tragedie. Avrebbe potuto passare chiunque, ma proprio l’amico no, è troppo! Questo pensiero lo scuote: finalmente spegne la tv e meccanicamente si dirige verso il garage, sale sul motorino, lo accende e per qualche secondo assapora il suono del motore. Quel fragore del 50 cc lo riempie tutto. Sente l’odore della benzina e sa che deve andare: immagina l’asfalto, l’odore delle gomme calde, vorrebbe essere veloce come il suo mito, veloce come il suo capitano… pensa al suo capitano, a come corre, che in quelle gambe lì ci deve essere per forza sotto un gran motore! Vorrebbe che non esistesse nessuno, per un solo istante non ci fosse nessuno: solo una strada su cui correre, su cui andare, andare finché c’è respiro, finché può essere il migliore. Sale per i colli, il motore del suo bolide fa fatica; arrivato vicino a un grande prato verde accosta, spegne il motore e inizia a correre giù per la collina, finché stanco non si lascia cadere sul prato, i capelli nell’erba. Ha ancora il casco in mano, lo appoggia accanto a sé e inizia a piangere; piange per quel padre che lo ha abbandonato e che non gli ha insegnato nulla, piange per tutta la rabbia che prova, piange perché vorrebbe fare di più per aiutare la madre, piange perché non è giusto che si possa morire così. Le lacrime calde gli rigano il viso. Riccardo non riesce a smettere e si sorprende di quanto vorrebbe unire al pianto le urla. Ci prova perfino, a urlare, ma non esce che un rantolo strozzato. A un certo punto si sente chiamare: «Ehi, stai bene?» È una ragazza dai capelli biondi, lunghi. Si sta avvicinando. Riccardo sa che non può farsi vedere così. Si asciuga il viso con la manica della giacca: sa che non è abbastanza, racconterà alla ragazza che ha un’allergia, per questo ha gli occhi rossi, e infastidito cercherà di scacciarla. La ragazza è ormai vicina e gli ripete: «Stai bene?» senza aspettare una risposta aggiunge: «È tuo quel motorino?», Riccardo risponde solo con un «Sì». «Sei caduto?» «No, mi stavo riposando…» La ragazza lo fissa, fa una piccola smorfia. «Vuoi un passaggio per tornare a casa?» «Non ne ho bisogno. Ho il motorino», risponde lui seccato. «Ok, come vuoi» dice lei. Fanno la strada insieme risalendo la collina; arrivati al motorino la ragazza lo saluta e gli chiede che strada deve fare per tornare a casa. Riccardo glielo dice e lei lo incalza: «Che caso, anch’io! Allora ti seguo in macchina per un pezzo…» Passano alcuni istanti, la ragazza inizia a fissare il motorino e poi gli chiede: «Sei interista?» «Sì, perché?» «Ho visto l’adesivo sul tuo motorino…» «Lo sei anche tu?» «Sì, cioè no, cioè avevo un ragazzo stratifoso dell’Inter, mi ha costretto a vedere tutte le partite, imparare i nomi dei giocatori, seguire campionato, Champions League e coppa Italia, diciamo che io amavo lui e lui amava l’Inter, così adesso…» Sembra che stia cercando qualcuno con cui parlare, sembra che anche lei abbia una tristezza che non riesce a esprimere fino in fondo. Riccardo è stanco di questa conversazione, la ragazza sembra cercare confidenza, ma lui è infastidito da questo eccesso di interesse. Sale sul motorino, e prima di mettere il casco le chiede: «Hai detto era, non state più insieme?» La ragazza abbassa lo sguardo, si morde il labbro inferiore, fa un mezzo sorriso e poi risponde: «Oltre che interista era uno stronzo… no, non stiamo più insieme». Riccardo sente che non può trattenere una mezza risata. Sa che non dovrebbe ridere di fronte a un cuore infranto, ma gli viene spontaneo. Dopo tutto quel pianto, ne ha proprio bisogno. La ragazza se ne accorge: «E quel che è peggio è che ormai seguo tutte le partite…»
I due si guardano e iniziano a ridere all’unisono. Non ha senso ma ridono tanto, e in quel riso amaro c’è il desiderio di rimettersi in piedi, di rialzarsi dalla caduta. Se qualcuno dovesse passare in quel momento non potrebbe non notare quei due che sghignazzano come matti. Riccardo nota che la ragazza ha gli occhi lucidi e sta cercando di nasconderlo. Per non metterla ulteriormente in imbarazzo accende il motore, mette il casco e la saluta. Percorre la strada verso la città; dietro di lui, l’auto della ragazza che lo segue. Anche se non lo ammetterà mai a se stesso e non lo racconterà a nessuno, è contento che qualcuno lo stia seguendo per sincerarsi che torni a casa, così addirittura rallenta in certi tratti per poterla avere dietro, a vista nello specchietto. Certo, non è questa la storia che immaginava come il suo aneddoto delle feste, ma questo suo piccolo segreto se lo tiene stretto per anni. Finché un giorno, per spiegare la gentilezza a suo figlio, gli racconta questa storia: ormai è un adulto, e il ricordo di quella ragazza più grande che una volta lo ha seguito è diventata la sua storia da raccontare.

Racconto presente nell’antologia Cadute edizioni Fernandel

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Tu non sei i tuoi anni…

Tu non sei i tuoi anni,
nè la taglia che indossi,
non sei il tuo peso
o il colore dei tuoi capelli.
Non sei il tuo nome,
o le fossette sulle tue guance,
sei tutti i libri che hai letto,
e tutte le parole che dici
sei la tua voce assonnata al mattino
e i sorrisi che provi a nascondere,
sei la dolcezza della tua risata
e ogni lacrima versata,
sei le canzoni urlate così forte,
quando sapevi di esser tutta sola,
sei anche i posti in cui sei stata
e il solo che davvero chiami casa,
sei tutto ciò in cui credi,
e le persone a cui vuoi bene,
sei le fotografie nella tua camera
e il futuro che dipingi.
Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.

— (Ernest Hemingway)

Il lavoro: il primo marito

Fin da quand ero piccola mia madre mi ripete questa frase:”il lavoro è il primo marito”, come indicare che il lavoro non ti lascia mai (o quasi si potrebbe dire adesso), ma il marito, il compagno invece sì. Non sono sposata e dedico almeno metà della giornata a cercare lavoro da qualche anno a questa parte, all’inizio avevo  velleità di fare qualcosa attinente agli studi come ingegnere dell’ambiente, speravo di poter contribuire a “salvare la Terra”, poi nel tempo ho scoperto che non frega niente a nessuno dell’ambiente o quanto meno per le aziende è solo l’ennesima tassa da pagare per far rientrare le proprie emissioni nei limiti. Nel tempo ho scoperto anche che questa figura non è capita fino in fondo. Una volta andai a fare un controllo per la tiroide, il medico mi chiese cosa facessi, quando gli risposi rimase interdetto, “cioè???” mi chiese, allora gli spiegai tutte le possibilità o quanto meno quelle che mi erano state dette dalla guida dello studente come possibilità, ma più ne parlavo e più mi rendevo conto che “stavo tentando di vendere pentole senza essere neppure io sicura del prodotto offerto”. A un certo punto mi disse:”ok allora se tu vedi qualcuno che getta una carta per strada lo riprendi e se trovi spazzatura per terra la raccogli”, gli feci notare che quello non era il mio lavoro ma poteva benissimo rientrare nel comune senso civico, ecco pure il senso civico mi aveva tolto un’occupazione, ma quello che era più importante era che per il medico che stava facendo l’ecografia io ero una forma di hippy avanzata, un netturbino 2.0, una fanatica della raccolta differenziata, un terrorista del riciclo. Uscii dalla visita contenta che il mio nodulo non fosse aumentato di dimensione ma con l’amarezza di quello che avrei trovato qualche anno più tardi. Ogni giorno cerco per ore offerte, lo faccio da circa tre anni più assiduamente, non ho mai smesso durante gli studi e non ho smesso neppure per quel mese senza computer perché rubato, ma neppure i ladri hanno saputo trovarmi un lavoro. Ogni giorno mia madre mi telefona e mi fa sentire uno straccio perché non ho scelto di fare quello che lei voleva e cioè l’insegnante delle elementari, “tu volevi fare l’ingegnere ed ecco come ti ritrovi, non ti ha portato un euro quella laurea dopo tutti i sacrifici”, e lei ha maledettamente ragione solo che se me lo dico da sola lo accetto (o ci provo), come accetto di averci messo troppo a laurearmi, come accetto che avrei dovuto fare meglio, come accetto che ci sono persone più brave e più fortunate, come accetto che le cose non vanno come si vuole anche se ci si impegna tanto, come ho accettato tutti gli insulti durante il percorso di studi. Questa frase sul lavoro connesso al matrimonio mi ha sempre fatto sentire a disagio, “il primo marito” colui che ti sostiene e non ti lascia “nella buona e nella cattiva sorte”, mi madre ha sempre vissuto il suo matrimonio come una conquista, così una volta separata è stato drammatico vedere che il progetto sul quale aveva investito quasi tutto era rovinato, ma il primo marito non l’aveva lasciata. Ho sempre pensato di voler essere una donna indipendente e forte da grande e adesso che sono grande temo di non essere riuscita a diventare la donna che desideravo, non ancora almeno. Provo una profonda ammirazione per chi segue la propria strada e va avanti senza voltarsi senza ascoltare chi lo denigra o cerca di spezzarlo, provo una profonda ammirazione per chi si ricicla a fare altro e cerca altre strade perché per fortuna la storia non è ancora scritta e la si può scrivere come si vuole, provo profonda ammirazione per chi prova a fare le cose considerate meno convenzionali e se ne frega delle etichette che abbiamo bisogno di attaccare per definire qualcuno, così come ai colloqui vorrei poter rispondere con solo “voglio solo lavorare e fare del mio meglio”, vorrei poter rispondere alla domanda cosa fai nella vita con un “cerco di essere una brava persona”, ma alla gente là fuori come ai selezionatori con gli occhialini e lo sguardo stupidamente penetrante da “ha scritto il suo nome con la penna blu invece che nera… si capisce molto di lei da questo” non interessa, abbiamo bisogno di un’etichetta dove poter essere catalogati, come se solo la professione definisse una persona e chi non lavora entra di diritto nello scomparto del “poverino”. Ogni giorno mi sveglio con un profondo senso di colpa, penso alle poche persone che conosco che si alzano e vanno a lavorare, penso anche che sono fortunata perché c’è qualcuno che può aiutarmi ma la frustrazione e l’orgoglio ferito non si placano. Sto cercando di riciclarmi, riutilizzarmi e recuperarmi e sì se vedo una carta per terra la raccolgo. Deformazione professionale.

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A mio padre

Dedico il primo post di questo esperimento a mio padre. Oggi è la festa del papà, ho letto su Facebook molti post delicati e sinceri, dedicati al proprio padre, alcuni hanno caricato foto, altri citazioni, altri ancora canzoni e ricordi. Mio padre di me si ricorda quando da molto piccola nella culla lo fissavo la mattina presto, in silenzio, prima che uscisse per andare a lavoro, lui non si avvicinava vedeva solo quest’occhio che lo seguiva e aspettava forse che si avvicinasse un po’ di più, ma lui non si avvicinava, quando gli chiedo il perché mi risponde in un modo che non riesco a capire, forse un giorno quando avrò dei figli miei ci penserò, comunque lui mi dice:” non mi avvicinavo perché altrimenti ti saresti messa a piangere”. Forse il rapporto con mio padre sta tutto lì, lui che non si avvicina mai abbastanza ed io che lo fisso alla ricerca di attenzione. Adesso che sono adulta e che potrei avere figli miei so che i miei genitori hanno cercato di fare del loro meglio nonostante non fossero affatto destinati a stare insieme, nonostante si siano detti e fatti le cose peggiori. Da mio padre ho ereditato il disagio per gli affetti, il desiderio di essere ascoltati ma la timidezza di chiedere. Qualche giorno fa per telefono, dopo che mi lamentavo che non mi chiamava mai, mi ha detto:”io non sapevo che stavi male, con me non ci parla mai nessuno…”. Ho sentito una forte tristezza avvolgermi, ho sentito la sua solitudine come un velo che copre tutto il corpo, non ho saputo dire nulla, ho solo cercato di non far sentire l’amarezza nella voce. Il giorno dopo gli ho scritto un messaggio, perché di persona lo so avrebbe imbarazzato entrambi:”con me puoi parlare se vuoi, anche con me non parla nessuno”. Lui dopo poco mi ha chiamata, forse stavolta ha sentito la mia solitudine, non gli ho risposto perché desideravo risparmiare il misero tentativo di amicizia e disagio che stavamo per avere, ho gettato il sasso e nascosto la mano. Per riportare tutto sul binario normale gli ho scritto che il lavandino ora funzionava, che ero riuscita a sistemarlo da sola, pensando che l’uomo del fai da te sarebbe stato orgoglioso di sua figlia. Non ho un gran rapporto con mio padre, non ci sentiamo mai e siamo colpevoli entrambi, alcune cose sono difficile da perdonare e per te alcune abitudini lo sono. Siamo tutti soli in questa famiglia legati dal sangue ma è un legame davvero debole nel nostro caso, ognuno vorrebbe spiccare il volo e farsi trascinare altrove. Io ho spiccato il volo anni fa, o almeno c’ho provato, combatto con tutti i miei fallimenti e tutti gli errori e a fatica sto cercando di perdonarmi, e in questo perdonarmi sto provando a  non farmi più influenzare dai cattivi giudizi e dalle parole perfide che provengono anche dalla mia famiglia, sto provando ad accettare anche loro per come sono. Così stavolta più o meno trent’anni dopo mi avvicino io a te e ti ringrazio di avermi portato ai concerti e di aver aspettato che finissero, allora la mia vita era tutta lì, ti ringrazio per aver fatto il lavoretto di educazione tecnica, ti ringrazio per esserci stato quando eravamo soli e le maestre a scuola chiedevano vipere e maliziose dove fosse la mia mamma, ti ringrazio per gli abbracci dopo il lungo viaggio arrivati alla stazione, per non avermi mai detto che sono un fallimento anche nel periodo (troppo lungo) universitario o adesso che il lavoro tarda ad arrivare, ti ringrazio per averci provato, ti ringrazio per il tuo bene a distanza, in silenzio.