Pensieri asociali

Diventare madre significa fare i conti con la figlia che sei stata, con la tua di madre e con le persone che spariscono e se già erano poche e non molto presenti, ci si affaccia sulla solitudine. Gli anni passano, ma resto sempre in quei bagni a mangiare da sola, ad aspettare che finisca l’intervallo, così potrò tornare in aula e ricomincerà il tempo riempito dalla lezione. Alla mia età dovrei essere fuori da queste dinamiche invece non riesco ad uscirne. Una volta una persona mi ha detto che per indole fatico a considerare la vita degli altri. Mi ha ferita così tanto, è questo che sono? Una che non vede e non considera gli impegni altrui? è possibile che io con un neonato di 6 mesi e la mia vita stravolta, e tutto il casino emotivo che ne deriva dopo gli aborti, non sia così piena di cose da fare? ho tanto da fare ovviamente eppure trovo il tempo per le mie amiche che probabilmente sono solo conoscenti. Trovo il tempo per chiedere “come stai” a una ragazza che mi ha detto avere l’influenza, trovo il tempo per chiedere per bene due volte a un’altra se ci vediamo e le andrò io incontro col passeggino. Un caffè veloce, dopo il lavoro, ma arrivano solo indifferenza o no.

Ho agito molto su me stessa per evitare di essere ancora una che “non considera la vita degli altri”, i loro impegni, le loro priorità. Ho imparato a dare spazio a non pretendere nulla, che non è come sembra, che nessuno ce l’ha con me per principio, che l’adolescente sofferente è il caso di zittirla e razionalizzare, ho imparati a venire incontro, a ricordami date, eventi, e infilare tutto questo nelle mia vita. Ma nonostante tutto, mi ritrovo ancora e sempre a elemosinare presenza. Possibile che siano tutti così occupati? Possibile che io non lo sia abbastanza? Possibile che ancora adesso dopo anni e cambiamenti e traumi che ho tenuto per me, pagando psicologi, non sia ancora capace di considerare la vita degli altri? E cosa vuol dire esattamente? Non chiedere più come stai? O non aspettarsi che lo chiedano a me?

Riempirsi la vita di altro e lasciare perdere gli esseri umani? e che messaggio potrò dare a mio figlio se sua madre è la prima che fatica ad avere rapporti? o forse considerare tutto superficialmente, non dare peso a niente. Restare soli. Ugualmente.

Scivola vai via, non te ne andare

Scrivere qui è diverso. Una sorta di confessione, ma anche lui/lei merita una parola. Il 4 febbraio ho scoperto di essere incinta. Dopo più di un anno da quel terribile evento sembrava che la vita fosse tornata a scorrere. Ho aspettato i risultati degli esami genetici, e poi il triste anniversario, per rispetto a te, ho iniziato dopo 5 novembre a cercare un bambino e ho impiegato poco. Sembra tutto semplice stavolta. nessun distacco. Mi sentivo in forze, ho continuato a lavorare, e invece il 9 marzo in un’ecografia mi hanno detto che il cuore non si sentiva. Aborto interno lo chiamano.

Quella sera ho desiderato le lame. ho urlato con tutto il fiato in gola, un dolore viscerale, interno. Un boato che mi apriva e mi squarciava. Adesso non credo di averne bisogno, sono ancora in uno stato semi confusionale. La mia testa rifiuta l’evento, sa che è esistito ma in qualche modo non c’è.

Una forma diversa, prematura di dolore. Io che avevo paura che dei test e invece tuo fratello o tua sorella se n’era già andato. Tornare nello stesso ospedale, stessi reparti è come rivivere gli stessi giorni di sofferenza. Detesto la ginecologia del Maggiore. Ho solo ricordi brutti. Mi hanno dato due pillole e mi hanno messo in una stanza con altre 4 donne, due erano lì perché stavano facendo un’interruzione volontaria; alle altre due era capitato che avessero iniziato ad avere perdite.
Tutte hanno già figli. Ho raccontato loro di come sei andato via tu, il parto e il dolore, il tempo che ho impiegato ad aspettare. Poi questo. Una un po’ sfrontata mi ha detto:”ti avrei dato il mio”. Che pugnalata! Le altre stavano serene ad aspettare che finisse la giornata e tornare a casa. Non una passeggiata certo, ma parlavano al telefono e cercavano di riposare. Io mi disperavo nel letto.

È scovolato via da me in qualche giorno. si meritava di più di questo. I medici hanno detto che con te non c’entra nulla, che è diverso stavolta, è la natura. “gli aborti nel primo trimestre sono piuttosto frequenti e non c’è nulla di cui si deve incolpare” hanno detto. Tu avevi già lasciato un solco, e speravo che tuo fratello o tua sorella potesse arginare il mare. Non so come mi sento adesso. La prima settimana è stata difficile, ho benedetto il lavoro anche se non mi esalta. Non mi sono riposata, ho ricominciato subito. Tutto pur di non pensare. Ho rifatto un controllo una settimana dopo e poi sono andata a camminare. Tra le colline in un parco riserva, poco prima dell’inizio della via degli dei, ho trovato il posto dove ti avrei disperso. Ho lasciato lì voi due e il mio cuore malandato. Questa città vi conserva entrambi. Seicento grammi tu, un grumo biologico lui/lei.

Mi sono chiesta perché sui social la gente scrive di lutti di persone care, di malattie, ma è molto raro che si legga di aborti. La psicologa dice che può essere che le persone che non l’hanno vissuto, non avendolo visto fisicamente il bambino, ne neghino l’esistenza. Ma esiste per i genitori, e questi non desiderano per forza parlarne. Si dice che solo una nuova gravidanza cura un aborto. Non lo so quanto posso resistere a questa ennesima prova. So bene che non è un evento raro, so bene che ci sono donne che hanno figli dopo il quarto o quinto tentativo ma quanto di me si porta via? Non è il dolore fisico, ma la testa. Come si cura la testa?

Mancate entrambi alla mamma. Tanto, tutti e due. Meritavate di più. Io spero di vedervi presto.

Una via di fuga

Oggi non voglio avere paura. sto affrontando un periodo di alti e bassi e non ho voglia di avere paura. mi sono fatta anche un piccolo pianto.

Ho aspettato il lavoro per due mesi, ho studiato a luglio per un concorso le cose sbagliate perché mi sentivo distrutta dopo un anno passato a macinare km a piedi, a far fronte al lutto, alle notizie negative, al collega misogino e ai tanti treni e pianti. Le mascherine hanno raccolto mesi di pianto. Ma il lavoro mi ha aiutata a stare con la testa fuori dalla melma; senza sarebbe stato anche peggio.

Non dormo bene da giorni, aspetto di nuovo un altro lavoro, un’altra chiamata da un’altra scuola. Il precariato che si aggiunge all’instabilità emotiva. Aspetto e ricevo notizie confortanti almeno dai test genetici. Sembra che certe cose le abbia sviluppate solo lui. Questo mi ha consolata da un lato per futuri tentativi ma mi ha fatto male per tutto l’amore che provo e proverò sempre per il mio bambino perduto. Eppure nn riesco ad essere del tutto felice. Ho paura che possa riaccadere e che io non abbia di nuovo la forza necessaria.

Mi sono svegliata alle 5:40 in preda all’ansia. La certezza di questa estate di essere chiamata mi si sta sgretolando tra le mani. E se questa certezza scorre via, quella più grande su un figlio come posso affrontarla? mi serve una forza che non so più se ho. La depressione mi perseguita da mesi. Se prima il dolore mi proteggeva, il passaggio graduale alla consapevolezza mi fa vedere con una lucidità parziale la mia realtà.

Oggi alle 11 mi chiama una scuola, non rispondo. Richiamo. Mi offrono una supplenza, quello che aspettavo, quello per cui non dormo bene la notte. Un lavoro. Ma non è così semplice. La paura di non essere all’altezza, di non saperlo fare mi assale. Non riesco a farmi forza dell’esperienza passata. Mi sento schiacciata dall’ansia. Sono troppo impaurita. Non riesco a essere lucida è indubbio. Anche se lo rifuggo come la peste devo prendere un sostegno perché non sono a posto. Sono troppo impaurita per quello che devo fare anche se mi sforzo di farlo. Mi sento che sto combattendo contro qualcosa più grande di me e non ho energia a sufficienza. È un mostro che è sempre con me. Mi aspetta e mi tira giù. Io mi sforzo tanto ma è pesante sentirsi così per una cosa che posso anche lasciare, ho già fatto e di cui non mi importa. Lo faccio per avere i soldi e sentirmi utile non è la fine del mondo. Ho bisogno di questo pensiero, è folle lo so bene, ma ho bisogno di una via di fuga. Lo so razionalmente ma emotivamente mi sento incapace. Ed è folle perché l’ho fatto l’anno scorso ed era peggio ma l’incoscienza del dolore così profondo mi ha aiutata adesso invece è come se vedessi tutto. Ma è una visione parziale e distorta. Non so se riesco a spiegarlo meglio di così.

Non voglio che vinca il mostro, non voglio che vinca e mi porti via. Ho resistito così tanto e non posso cedere adesso. Ho perfino fatto due colloqui per un lavoro in un’azienda. Ho iniziato un corso online per spronarmi ed essere attiva. Io non voglio avere paura. Ho guardato la foto di un anno fa, quando ho iniziato a lavorare nell’altra scuola, 25 giorni dopo l’aborto. Non devo avere paura. Non voglio.

“Hai la voce sempre sul punto di deragliare o bloccarsi. Si sente stanchezza, paura, tipica fragilità del depresso”

Voglio vivere la mia vita normalmente e non farmi inghiottire da paure irrazionali, voglio essere padrona di me stessa. Voglio permettermi il lusso di cercare altro, se mai lo farò, non per paura ma per consapevolezza piena, viva e razionale e desiderio.

È paradossale aspettare un lavoro, non dormire, sentirsi schiacciati dal lutto e dalla disoccupazione e poi cercare vie di fuga. Così non vivrò mai bene, così non mi faccio del bene.

Decantare

Foto di Tom Verdoot da Pexels

Se il giorno l’ho sopportato, alla sera sei qui.

Da bravo ingegnere ho contato le ore. 112 all’inizio, adesso 88, i tasti del piano, ecco suonare il piano, stirare, studiare, mandare cv (che non finisce mai la ricerca per il sostituto sostituibile!). Ti avrei detto della programmazione. Ti avrei fatto vedere la foto dell’errore della pagina, ti avrei fatto vedere quel meme. Ci sono cose che dico a te. Solo a te. Alcune non sono importanti. Lo faccio per passare il tempo. Per farti ridere. Per condividere un sorriso. Credere che sia vera condivisione, che sia reale.

Siamo amici?

E se scoprissi che sei stato bene in questi giorni? e se ti scoprissi più leggero? Ti confesso che io un po’ di leggerezza l’ho sentita oggi. Uno spazio di silenzio dove respirare, senza errori da ammettere e scuse da dare. Non posso avere paura anche di questo. Non voglio.

E se mi scoprissi più leggera?

Ruote e portoni

Vi prego ditemi che questo è un incubo e poi ci si risveglia, ditemi che la ruota gira, che ci sono i portoni, le finestre, i pertugi, ditemi che non piove per sempre, che esistono altre possibilità, che mal comune mezzo gaudio, che ho ancora resistenza, che sto scontando una pena ma ha un tempo definito. Ditemi che passerà.

Sono esuasta. Tra la questione vaccino che tra poco mi scadrà la copertura e devo fare la seconda dose con un vaccino diverso, l’aver dato possibilità a chi non se le meritava e mi ha preso in giro in un periodo delicatissimo e di fragilità, la disoccupazione tra meno di 15 giorni e sotto il lutto e l’attendere i risultati dei test genetici per sapere se sono portatrice sana di una sindrome che posso trasmttere ai miei possibili figli, io non ne posso più.

La psicologa non è servita a nulla, sono esausta.

Foto di Ekaterina da Pexels

Errori e stanchezza

Non scrivo qui da troppo tempo. Sono stanca esausta. Fare la pendolare si sta facendo sentire e per quanto abbia cercato di elaborare al meglio il lutto, il destino mi ha beffato cercando di smontarmi e assestare altri colpi là dove fa più male.

Ho ritirato il primo aprile il referto istologico, quello che ho ribattezzato il foglio del macellaio. So quanto pesano i tuoi organi. Non so bene con che forza sia tornata in quel reparto. Ho registrato i passi pesanti, il dolore e i pensieri su note vocali e note scritte sul cellulare che non so se mai avrò il coraggio di riascoltare e rileggere ma dovevo in qualche modo uscire da me stessa in quel momento. Bello scherzo il primo aprile e poi l’ansia per il vaccino, farlo il giorno dopo che chi sa dice che è meglio che le donne sotto i sessanta non lo facciano mi ha dato altra apprensione ma alla fine sono andata lo stesso. Poi è arrivato il 3 maggio e il consulto genetico tra pancioni, neonati, cullette e porte blu ricordo di ecografie maledette. Quante volte ho rivissuto quei giorni nell’ultimo mese e mezzo?! Come si fa ad andare avanti se gli eventi mi trascinano indietro?!

In questo marasma ho litigato con mia madre che non ha sensibilità ed empatia, ma narcisista vuole lei attenzioni e mortifica là dove fa male per ottenerle; con mio marito anche lui stanco, povero e con un amico che ha cercato distarmi vicino a modo suo. Mi sono sentita tanto sola. Non ho fatto altro che cercare le mie amiche per non stare sola e avrei voluto essere più considerata, avrei voluto che qualcuno mi chiedesse “come stai?” ma forse per la paura che gli potessi vomitare il mio disagio e per non sapere mai cosa dire in certe situazioni i pochi hanno evitato. Così ho chiesto e per lo più solo ascoltato e anche quando avrei voluto esternare di più ho cercato di contenermi, non sempre ci sono riuscita. Bisogna anche saper entrare nella vita degli altri e non arrivare e scaricare la propria merda. Mi è sembrato di essere stata attenta ma la lucidità in questi ultimi giorni mi sta abbandonando. Sono esausta. 50km a piedi a settimana e quasi due ore di viaggi al giorno sulla mia mente fragile si fanno sentire. O forse no, stanno solo perdendo il loro potere salvifico da quando ho scoperto di aver commesso un errore che mi costerà molto per i prossimi lavori.

Ho scoperto con un mese di ritardo di aver compilato male l’aggiornamento per le graduatorie per la scuola. Ormai il mi piace non esiste più da tempo ma esiste “è un lavoro” e di questi tempi bisogna solo esserne felici, lo so bene. Due giorni di pianto e un’indulgenza che mi manca. Non so come ho potuto sbagliare perchè io non sbaglio mai certe cose ma la testa così carica non l’ho mai avuta e devo accettare a malincuore che ho commesso un errore, grave, ma l’ho commesso. Lo pagherò nei prossimi mesi di nuovo di disoccupazione e avrei tanto tanto tanto voluto potermi rilassare con il pensiero “ho buone possibilità” ma mi sono tagliata le gambe da sola e non si può rimediare.

La psicologa mi ha vista provata dalla rabbia e dalla frustrazione, non credo più che mi serva a molto e comunque senza uno stipendio non potrò permettermi chissà quante altre sedute. Sono esausta. A un certo punto mi ha chiesto se volessi prendere qualcosa, prima di naturale e poi la chimica che regola gli impulsi. Mi sono offesa, ma non sono lucida quindi potrei aver reagito in modo eccessivo ma mi ha dato noia ugualmente e il mio credere nella cura è venuto meno. Le darò un’altra occasione perchè so di essere più suscettibile ed emotiva in questo periodo ma sono stanca e vorrei potermelo permettere e lei mi ha risposto: “adesso devi sforzarti ancora di più per cercare lavoro e come magrissima consolazione non penserai al lutto”. Questo pensiero mi ha fatto incazzare. Non sono un carroarmato, ho bisogno di cedere, di riposare la testa, di una bolla di felicità dove non accadono eventi negativi, dove poter essere leggera. E invece mi si chiede di tirare fuori energie che non ho per ciò che mi crea frustrazione da sempre. Vorrei potermi lamentare per ore e piangere e urlare arrabbiata perchè io?! Non basta partorire un figlio morto a causa di una malformazione?! non solo dovermi scontare il lutto, i km a piedi pur di lavorare, un collega buzzurro novax e cafone misogino (“be’ tu non puoi farlo questo”), non solo dovermi scontare tutte le persone felici che fanno (buon per loro, non sono così meschina, o forse sì?!) figli senza problemi e hanno trovato un lavoro da anni con sforzi certo ma mai hanno vissuto la disoccupazione e l’umiliazione di colloqui inutili e recruiter deficienti che leggono per la prima volta il tuo cv davanti a te, e il mandare migliaia di cv inutili, e ridimensionarsi adattarsi, modificarsi, cercare di capire cosa e dove si sbaglia ma niente. E oltre a questo pure la sfiga o la genetica che mi condanna come possibile madre. Sono esausta e si può sorridere e cercare di vedere le cose buone e “consolarsi con chi ha meno” ma sono esausta e tanto troppo arrabbiata.

“Sforzati e prendi qualcosa per l’energia”

“Ma non mi manca l’energia ho problemi con l’umore”

“Molte mie pazienti prendono qualcosa, devi provare a chiedere al medico oppure se vuoi ti consiglio un ottimo psichiatra. Magari c’è anche qualcosa di naturale…”

Sono esausta e ho scritto al mio medico a malincuore ma sono in trincea in una guerra che non ho chiesto di fare da cui vorrei andarmene ma non posso abbattermi troppo, non posso cedere e vorrei tanto un po’ di leggerezza. Basterebbe una sola nota positiva, me la farei bastare.

“Un po’ di leggerezza e di stupidità”.

Battiato

„Il tempo può risolvere molti problemi. Ma quelli che il tempo non può risolvere, li dobbiamo risolvere da soli.“

Haruki Murakami

Auguri

La città è ricoperta di nuvole. Chissà quanti giorni come oggi hai passato a guardare verso il cielo e magari bambino e poi ragazzo ti sei chiesto: pioverà?! Potrò andare a giocare fuori?! Potrò raggiungere quell’amico senza inzupparmi?! Potrò giocare quella partita?! Mi piace immaginarti nel tuo passato. Oggi che si sanciscono 50 anni di esistenza, di scelte, di persone e viaggi, lo faccio ancora più volentieri. C’è un tempo dilatato, possibile, anche se già finito. Un tempo in cui siamo stati più vicini di ora. Io ti immagino che cammini tenendo la mano di tua madre e lei ti presenta la città, ti immagino nelle estati in Romagna a giocare sulla sabbia, ti immagino prendere piano piano il tuo posto nel mondo. Ti immagino mentre giochi a tennis concentrato, mentre ti alleni e chiedi al tuo corpo maggiore resistenza. Ti immagino leggere e scoprire nuovi luoghi, nuove visioni, nuove parole. Immagino mentre baci la tua ragazza e fai l’amore con lei, il suo corpo giovane che si dà a te con te desiderio, il tuo sguardo eccitato e felice. Ti immagino mentre scrivi racconti e iniziano ad albergare centinaia di storie nella tua testa. E sono tutti lì i personaggi, ti aspettano, ti danno il tempo d’imparare e migliorare. Ti immagino dover scontare le scelte della perdita, riprogettare i propri desideri e studiare nuove possibilità su libri di analisi e di fisica. Ti immagino che scrivi ancora, perchè si possono anche appoggiare le racchette e riempire la testa di codici e numeri, ma alcune parole restano lì e nel tempo prendono spazio. E forse è quello il tuo destino ma ancora non lo sai.

Immagino un bar, un posto anonimo senza pretese, sei di fretta, devi vedere qualcuno. Non ti piace il centro, lo trovi artificioso, non ci vai quasi mai. La città da possibilità si sta trasformando in gabbia di devo e come. Desideri più spazio, aria, superfici senza limiti, qualcosa che possa disperderti. Desideri poter respirare senza sguardi inopportuni. Poter cedere, lasciare stare e andare oltre. Sei di fretta, entri in un bar e ordini un caffè qualcuno vicino a te al bancone, ha i capelli neri, è più bassa di te e più giovane. I soliti ragazzini che dalla provincia vengono in città a cercare qualcosa. Non puoi sapere cosa, è un’istanza che non ti appartiene. Tu non vedi lei e lei non vede te. Eppure siete vicini, potreste perfino toccarvi, qualche centimetro in un tempo di possibilità per entrambi.

Se esiste quel giorno nel passato vorrei averti sfiorato, ora che tu sei scappato via e io invece sono qui. Un anno fa ho scritto parole per te, è successo di tutto in questi mesi. Tu lo sai, ti racconto tutto, sei il mio confidente, il mio amico, sei l’abbraccio della mia vita. Avrei resistito molto peggio senza di te. Purtroppo ho dovuto rinfrescare la lezione di quanto l’esistenza sia imprevedibile e insopportabile, quindi stavolta invece di farti una lista ti faccio il più semplice e banale degli auguri: io voglio solo che tu stia bene, che le persone che ami stiano bene, che tu ti senta accolto, capito amato protetto e desiderato e non è di certo con l’età che si smette di desiderare certe cose. Io voglio che tu sia felice, di una felicità stupida e infantile e voglio che tu sia sereno nelle scelte che hai fatto e che farai. Alla fine non resta niente, solo quello che lasciamo negli altri. Riceverai centinaia di auguri e spero migliori dei miei, centinaia di persone che perdono secondi di vita per te, che insieme diventano minuti e ore negli anni. Ore di vita di pensieri per te. Lo so che giudichi queste cose con distacco ma spero che tu ti conceda di gioirne sorpreso, non con lo sguardo severo dell’adulto, ma con l’innocenza di un bambino.

Buon compleanno Scrittore.

Foto di Flora Westbrook da Pexels

parole parole parole

Questo scritto vorrei che fosse una lettera per te che hai a disposizione tutto lo spazio e tutti i pretesti.

Amore mio, ti scrivo come se tu potessi capirmi, vedermi, ascoltarmi. Come se avessimo passato insieme i primi anni e ora avessi un’età più vicina alla mia. L’età in cui mi avresti perdonato per gli errori e avresti imparato che non posso salvarti e proteggerti da tutto e non so tutto. Non so proprio niente. L’età in cui avresti imparato che la mamma è prima una donna con i suoi difetti e il suo carattere e la sua storia. Amore mio, la mamma non sta bene. Passa i giorni ad alternare pianto a sorrisi. Sta facendo il lavoro che ti aveva promesso. Ci sta provando, si alza, fa 50 km andata e ritorno e poi distrutta si addormenta sul divano per poi alzarsi e andare a letto e ripiombare in un sonno che non sazia mai. Dormo ma non mi riposo. Le mascherine però contengono così tante lacrime! Non insegno niente. Riparo i pc. Ho usato il mio diploma, la laurea l’ho messa in un cassetto, forse un giorno la tirerò fuori ma per ora è solo un pezzo di carta che attesta un periodo della mia vita. Riparo i pc. Non lo avrei mai immaginato. Li sposto, li apro e provo a sistemare, resettare, aggiornare. Faccio ricorso a conoscenze di più di dieci anni fa. E mi sento spesso in un limbo tra la me che ha studiato certe cose e la me di ora. Nel mezzo cosa ci sia stato non ne sono più sicura. Dopo quello che è successo, non sono più la stessa. Avevo certezze per negazione. Un vivere maldestro, ostentavo la certezza del non volere. Adesso mi lascio accadere le cose. Sono così ferita che non mi può colpire più nulla o forse mi tocca tutto. Non so spiegartelo bene. Credevo che avrei avuto paura ad entrare in una scuola, anzi avevo paura. La ragazza di allora bullizzata si riaffacciava in me e non riuscivo a domarla, a contenerla a tranquillizzarla che la donna ora avrebbe saputo affrontare anche questa. Poi sei arrivato tu e ho dovuto lasciarti e mi hai spostata su un piano diverso. Te lo avevo promesso che ci avrei provato, che avrei affrontato la mia idiosincrasia e così è stato. Gestisco i pc di tre scuole, supporto a qualsiasi domanda, spesso non so a priori cosa dovrò fare ma ci provo e credo che l’ingegnere (o la me vera) venga fuori lì: improvviso cercando di risolvere, perché una soluzione si trova. Perché è ciò che ho sempre provato a fare.

A scuola l’informatica, il coding mi metteva soggezione, ero brava ma mi sentivo inadatta. Avevo sciocche velleità artistiche. Ora apro i pc e li rimetto in sesto. La logica binaria mi tranquillizza. Sostituisco i pezzi, li tratto con rispetto. Amore mio vorrei che tra quelle memorie volatili e quegli HD ci fosse pure il pezzo del tuo cuore incompleto. Non ho saputo proteggerti e non so gestire questo senso di colpa che mi schiaccia. Vivo trascinandomi nel mondo perennemente in attesa che un giorno improvvisamente non facciano più male i pancioni, i passeggini, i bambini piccoli, i ciucci, le pubblicità con le anomalie genetiche.

La mamma sta facendo del suo meglio. Resiste. Sono arrivata alla settima psicologa, ormai non ci credo più ma mi sforzo. Quest’ultima mi ha dato un compito: scrivere ogni volta che il dolore mi distrugge, lasciare andare la disperazione su un foglio proprio quando vorrei scacciarla via. Non rileggere nulla e non fare caso alla qualità dello scritto. Ci provo, ma contenere la forza della piena non è facile, so prevederla definirne le equazioni, impostare il calcolo ma quando arriva l’acqua inonda tutto. Così il dolore riempie la testa, le spalle, le ginocchia, i piedi, le dita. Tutto è sommerso e devo aspettare che defluisca.

Foto di Madeline Bassinder da Pexels



Hai creato solchi.

A case of you

Io non ho nomi. Non ho nessuno che mi chiami mamma. Non ho voci, ricordi, mani che mi cercano, pianti, sorrisi, capricci, disagi, litigi, urla, risate, richieste. Non ho abbracci, rimproveri. Non ho niente. Solo una ricostruzione di un futuro che non esisterà mai prodotta dalla mia testa e il ricordo di un corpicino tenero violaceo che sembra dormire. Poco più grande di una mano, la pelle liscia ma semi gommosa non del tutto temprata dal tempo. Rannicchiato in posizione fetale con gli occhi chiusi, le mani a pugni e un piccolo fazzoletto a proteggere un cranio fragilissimo. Non so neppure di che colore sono i tuoi occhi, con che sguardi mi avresti guardato. Io non ho niente.

Hai 1 anno ti alzi in piedi verso di me, cammini e io ti dico “bravo vieni dalla mamma” 

Hai 7 anni e vai a scuola e sei curioso, mi riempi di domande

Hai 16 anni ti illudi che non abbia vissuto i tuoi timori, mi detesti ma mi ami. Non posso capirti e in parte è così. Non ho più tutte le risposte 

Hai 21 anni non sai bene che farai del tuo futuro. Hai tante idee in testa e inizi a sentire forte il desiderio di creare una vita solo tua. Sei innamorato e vuoi che duri 

Hai 27 anni fai tanti viaggi. Ti dimentichi di chiamarmi e trovi un lavoro lontano da casa ma sai che io sono qui

Hai 35 anni mi metti in braccio il tuo primo genito, odora di latte e ha i tuoi occhi 

Hai 42 anni e ora chiami più tu me di quanto non lo faccia io

Hai 49 anni e io immagino ancora freddi che non ci saranno mai abbastanza sciarpe a scaldarti il collo

Hai 55 anni e sono stata fortunata a goderti per tanto tempo ma tu hai paura e ti senti bambino ora a cercare la mia mano.

Se saremo fortunati ci rincontreremo da un’altra parte.

Addio amore mio

Scrivere questo post è una delle esperienze più difficili della mia vita, ma oggi è una settimana e bisogna andare avanti. O quanto meno provarci. Mi accorgo solo adesso che non ho tante parole e ciò che vorrei e potrei dire è soffocato dal dolore fisico e mentale.

Ho fatto un’interruzione terapeutica di gravidanza. Scriverlo è strano, non ci credo ancora, è passata una settimana, eppure una parte di me non ci crede.

Ho dovuto farlo. Un atto d’amore.

Lunedì 26 ottobre ci hanno dato brutte notizie. Una parte del cuore non si è formata. Hanno prenotato subito un’ ecocardio fetale e la settimana fino al 2 novembre è stata lenta e delirante. Mi hanno detto da subito che se volevo interrompere ne avevo facoltà ma di aspettare il referto del cardiologo fetale.

Il 2 novembre in corridoi vuoti ho atteso l’ultima visita. Poi un lettino in uno stanzino spoglio, il gel freddo sulla pancia e 4 persone a fissare un monitor. Il referto con annesso consulto subito dopo nella stanza di fronte, su sedie di legno come quelle delle scuole superiori vecchie e senza braccioli.

Ricorderò per il resto della mia vita la cardiologa che fa un disegno di come funziona un cuore normale e poi dice che il tuo non funzionerà mai così. Ci sono tre tipi di cardiopatie, la tua è grave. Finché sei dentro di me sei vivo dopo sarà diverso. Non piango. Lo so. Lo so da un po’, dall’ultima passeggiata insieme, lo so perchè volevo vedere il mare e farti sentire l’odore attraverso di me, lo so perchè ho avuto paura per mesi. La sofferenza sarà solo mia, me ne faccio carico io. Tu non devi soffrire.

Mi hanno dato la prima dose martedì 3 novembre in un corridoio dopo aver aspettato quasi 6 ore, un prelievo e il tampone. Ho fissato la pillola per qualche istante, vicino a me un gruppo di infermieri chiacchierava. Ho pensato:”adesso inizia la fine”. Poco più in là un papà portava a fare un giretto nel corridoio una neonata. Ho pianto mentre attendevo in uno stanzino che la pillola non mi provocasse reazioni allergiche, con in sottofondo il pianto di altri neonati presenti nel reparto.

Sei stato con me due giorni, in cui ancora ti sentivo muoverti dentro la mia pancia e poi un travaglio doloroso di 12 ore. Non sapevo come respirare, è la mia prima gravidanza, non sapevo facesse tanto male. Mi hanno riempito di farmaci ogni tre ore per indurmi il parto, ma il mio corpo resisteva. Mi hanno lasciata sola con le mie contrazioni che non mi dilatavano mai abbastanza. Almeno ero in una stanza da sola ma soffrivo e mi dimenavo e la morfina non bastava e il tubicino della flebo si chiudeva. Le ultime 5 ore avevo contrazioni ogni minuto e tutte le volte che passava qualcuno chiedevo se fossimo vicini alla fine. Ho pregato un’ostetrica di togliermelo, non ne potevo più. “Ti prego aiutami. Fa tanto male”.

Sei nato alle 22 come me, ma tu eri senza vita. Per fortuna ho avuto due ostetriche l’ultima ora che sono rimaste con me a tenermi la mano e a dirmi come respirare per resistere al dolore delle contrazioni. Le ho ringraziate tanto. So che sono momenti di pressione per il personale sanitario, sono stata fortunata ad avere loro.

Ho chiesto di vederti. Mi hanno portato degli opuscoli di un’associazione di genitori che hanno subito la stessa pena e poi piccolo ti hanno portato da me. Ci hanno lasciato da soli e ho potuto guardarti e sfiorarti. Ti ho parlato ma quelle parole sono solo per te. Ti ho baciato e coccolato e sei rimasto con me tutta la notte. Ti ho tenuto sul mio petto e non ho dormito. Il tuo corpicino non pesava nulla, ma eri perfetto. Alle 6:12 sono venuti a prenderti, ti ho dato due baci e ti ho lasciato alle mani di un’infermiera. Qualche ora dopo mi hanno dimessa e sono andata a casa.

Il primo giorno è stato terribile, ho pianto 4 o 5 volte, non sapevo come resistere, come sopravvivere. Mi hanno chiamato dal consultorio, un’infermiera sotto pressione dell’ostetrica mi ha organizzato un appuntamento con una psicologa per venerdì 13, sembra un vecchio film dell’orrore.

Ho tagliato i capelli e li ho fatti scuri. Un’amica mi ha invitato a casa sua a fare dei tortellini per distrarmi. Ho detto a chi non lo sapeva ciò che era successo, stando sul vago perchè il senso di colpa e di impotenza è forte. So che avrei imparato prima o poi che non potevo proteggerti da tutto ma così no. Ho scoperto che succede molto più di quanto si creda ma non se ne parla e lo capisco bene. Ho amiche che mi cercano e sono fortunata, la mia famiglia si è rivelata quella che è anche in questa occasione ma ho trovato all’esterno, nel mio compagno e nel mio cane la forza per continuare.

Certi giorni il dolore è così dolce che verrebbe facile accoccolarsi tra le braccia dell’autocommiserazione e inebriarsi di rabbia e disperazione. Ho bevuto un po’ ma non è servito, anzi mi ha provocato ancora più tristezza. Resisto mezza giornata alla volta. Fanno male tantissime piccole cose, i ciucci in farmacia. I passeggini per strada, una bambina che corre felice verso il suo papà, i post su Facebook con i bambini e i loro compleanni, la pubblicità del latte in polvere, gli altri pancioni, la voce del mio nipotino al telefono, ma resisto.

Impossibile per me dimenticarti a prescindere se avrò o meno altri figli, tu sarai sempre il mio primo bambino. Imparerò a convivere con questo dolore e spero solo di poterti rivedere un giorno amore mio.